Il 14 giugno del 1837, Giacomo Leopardi cessava di vivere. Di fronte ad un poeta della sua grandezza ogni parola appare inadeguata. Davanti alla sua figura si rimane muti, stupefatti, mentre nell’animo risuonano i versi delle sue liriche più famose, quelle che, un tempo, a scuola ci facevano imparare a memoria. Oggi non usa più, ma io benedico quel tempo poiché, ancora oggi, quando brani di quelle liriche riaffiorano nella mia mente, provo un’emozione, un turbamento profondo come non accade coi versi di nessun altro poeta al mondo.
Leopardi costituisce un unicum nel mondo letterario e poetico italiano e non solo. Nei manuali lo si definisce il maggior poeta dell’Ottocento italiano, una delle figure più importanti della letteratura mondiale, il poeta più rappresentativo del Romanticismo letterario, ma anche filosofo, poiché seppe condurre una profonda riflessione sull’esistenza e sulla condizione umana. I suoi versi posseggono una qualità ed una forza lirica tali che le ricadute della sua opera vanno ben oltre quella che è stata la sua epoca. La sua è una poesia universale e senza tempo.
Di certo la sua vicenda umana si riflette sulla sua opera ed in essa è sempre presente un pessimismo di fondo che affonda le radici nella grave patologia di cui era affetto, ma che si è poi sviluppato in un compiuto sistema poetico e filosofico.
Certamente il suo pensiero filosofico si esprime apertamente nelle sue opere in prosa, ma trova corrispondenze precise anche nei versi. Il suo pensiero lo colloca nell’alveo dell’Esistenzialismo, o meglio fa di lui un precursore della corrente filosofica cui appartennero Schopenauer, Kierkgaard, Nietzsche, e più tardi Kafka.
Trascorse l’infanzia e la giovinezza nel palazzo avito di Recanati e la sua formazione avvenne sotto la guida di due precettori: don Giuseppe Torres, gesuita, fino al 1808 e l’abate Sebastiano Sanchini fino al 1813. Ma nonostante la presenza di due ecclesiastici, il giovane intraprese un suo personale percorso di formazione avvalendosi dei testi della biblioteca del padre, Monaldo e di altre biblioteche. Fu dal punto di vista culturale precocissimo ed all’età di dieci anni sapeva scrivere in latino e conosceva le regole del verseggiare in uso nel Settecento.
Dal 1809 al 1816 si immerse in quello che lui stesso avrebbe poi definito “uno studio matto e disperatissimo”. Imparò il greco ed in forma meno approfondita il francese, l’inglese, il tedesco, lo spagnolo e, addirittura, il sanscrito.
Alle soglie dei diciannove anni, nel 1817 cominciò ad avvertire il desiderio di evadere da quel piccolo mondo chiuso di Recanati, ma dovette attendere fino al 1822 per avere dal padre il permesso di recarsi a Roma ospite di uno zio. Trovò la città squallida e modesta a fronte dell’idea che se ne era fatta dallo studio dei classici. Rientrò pertanto a Recanati, ma dal 1825 prese a viaggiare per l’Italia. Fu a Milano invitato dall’editore Stella, poi a Bologna, a Firenze e a Pisa.
Nel 1833 si trasferì a Napoli, nella speranza che il clima mite della città potesse giovare alla sua salute. Andò ad abitare con l’amico Antonio Ranieri in una casa posta al numero 2 di vico Pero, in prossimità di Santa Teresa degli Scalzi. Lì però, nonostante le sue sempre precarie condizioni di salute, aveva un regime di vita alquanto sregolato e si dedicava incessantemente al lavoro. Dormiva di giorno, vegliava di notte per lavorare. Si alzava dal letto nel pomeriggio ed ingurgitava quantità impressionanti di dolci. Soprattutto era ghiotto dei sorbetti della gelateria Angioli in via Toledo. La sua voracità era tale da attirare anche la curiosità dei passanti ed anche di torme di scugnizzi che l’amico Ranieri era costretto a scacciar via.
Nel 1836 a Napoli, come in altre parti d’Italia cominciò ad imperversare un’epidemia di colera ed anche il poeta ne fu vittima l’anno successivo. La mattina del 14 giugno del 1837 si sentì malissimo ed al suo capezzale fu chiamato, nel pomeriggio, il dottor Stefano Mollica il quale non potè fare altro che constatarne la morte.
Da quel momento inizia il mistero della sepoltura del poeta. Nel volume “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, scritto dal Ranieri che lo ospitava si legge:
“Il cadavere fu salvato dalla confusione del camposanto cholerico ed assettato in una cassa di noce impiombata e raccolto pietosamente in una sepoltura ecclesiastica sotto l’altare a destra della chiesetta suburbana di San Vitale.”
Tuttavia nei registri della chiesa non vi è nessuna documentazione che parli della sepoltura di Giacomo Leopardi. Inoltre con l’epidemia di colera in corso la rete dei controlli era fittissima e non sfuggì nessuno, nemmeno le salme di personaggi importanti morti in quel periodo. Tutti nudi e nella calce viva. Del resto i morti in città erano ventimila e sembra assai improbabile che Ranieri sia riuscito a far seppellire il poeta all’interno di una chiesa. Si aggiunga a ciò che nel il 21 luglio del 1900 fu effettuata una ricognizione sulla cassa che doveva presumibilmente contenere i resti di Leopardi, ma all’apertura di essa fu ritrovato solo un femore, dei frammenti di ossa, un vecchio soprabito verdastro, mancava il cranio e non vi era nessun torace o vertebra, che avrebbero potuto fornire indizi sull’identità del cadavere, viste le deformità ossee di cui era stato affetto Leopardi. Il mistero della sua sepoltura rimane quindi inestricabile.