Giovedì Cinema: il caso “Parthenope” di Paolo Sorrentino

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Il nuovo Paradiso del cinema

di Giuseppe Moesh-*

Amo i cani e ne ho sempre avuti come amici, da questi ne ero e sono inseparabile ma non per questo posso definirmi cinofilo, così come amando il cinema come forma d’arte non posso definirmi un cinefilo, ovvero un accanito spettatore di ogni tipo di produzione.

 

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Sono stato fortunato di vivere in un Paese e in un periodo storico in cui il cinema ha saputo esprimere livelli qualitativi altissimi dal neorealismo ai western dall’incomunicabilità alla commedia all’italiana, con attori, registi, produttori, scenografi, sceneggiatori, tecnici del suono, della ripresa e maestranze tutte che hanno ricevuto giustamente il plauso internazionale. Tutte quelle professionalità danno vita ad un quid che trasforma una serie di esibizioni e di riprese in un prodotto più o meno omogeneo, e più o meno ben riuscito che in taluni casi assurge a livello di capolavoro.

In ognuno dei settori menzionati abbiamo avuto la fortuna di trovare grandi artisti che hanno prestato il loro talento alla produzione in tutti i ruoli essenziali di quella che è diventata una delle più importanti industrie, basti pensare oltre che al nostro Paese, alla Hollywood americana o alla Bollywood indiana.
Non a caso nella premiazione annuale che viene fatta nel più prestigioso consesso di settore, ovvero nel conferimento degli Oscar, i riconoscimenti vanno assegnati a tutte le molteplici componenti della produzione.

Sono stato un consumatore di quel prodotto nelle sale del passato, nei pidocchietti come nei grandi cinema, ho vissuto la crisi di quel settore e l’avvento di nuovi sistemi audiovisivi e l’arrivo di innovazioni che rendono più attrattive le sale, con cospicui contributi da parte dello Stato; tutte azioni volte a richiamare spettatori dai gusti diversi e profondamente condizionati dalla TV, dai video games, dagli smartphone e da tutte le altre piattaforme esistenti, e bisogna sottolineare che in omaggio al profitto, i gestori, oltre che i produttori hanno assecondato questa tendenza.

Gli effetti speciali, il livello di riproduzione dei suoni, l’aggressività delle immagini la posizione assunta sulle poltrone che ricordano i triclini dell’antica Roma, dove si consuma, oggi come allora, un inutile spuntino rigorosamente a base di popcorn accompagnata da più o meno zuccherose bibite gasate, riportano anche alle nostre latitudini le abitudini degli USA come modello da seguire.

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Tutti questi elementi sono quelli che mi hanno allontanato dal grande schermo, preferendo di gran lunga il più piccolo schermo televisivo di casa, ma in un ambiente più prossimo ai miei gusti, senza dover subire le angherie di una società sempre meno rispettosa dei diritti altrui e non oppresso dal puzzo stantio di oli vegetali surriscaldati ed irranciditi.

Devo dire che la cosa un poco mi dispiace perché ho avuto modo, per le più varie vicissitudini della vita, e per la mia curiosità e voglia di conoscere, di partecipare episodicamente a quel mondo in diversi ruoli, da quello del figurante, a quello dello sceneggiatore, a quello del doppiatore di me stesso e di seguire le lavorazioni di alcuni film anche in stretta interazione con il regista, fino a quello di controllo in un ente fortemente rilevante nel settore, in quanto Vice Capo di Gabinetto del Ministero che all’epoca si occupava del settore.

Negli ultimi tempi, quindi, le mie frequentazioni delle sale possono contarsi sulla punta delle dita di una mano ed ho partecipato solo in sporadici casi al rito collettivo, quando la grancassa mediatica imponeva di vedere il capolavoro di turno sul grande schermo che avrebbe esaltato il prodotto.

Così, la mia napoletanità, e le sollecitazioni “’ra folla dell’amice e deì pariente” mi hanno convinto ad attivare le procedure informatiche per prenotare il mio accesso alla visione della pellicola “Parthenope” con l’H.

È stato imbarazzante scegliere il posto quando mi si è presentata la piantina della sala per lo spettacolo delle 20:20, nella quale tutti i posti erano disponibili cioè non prenotati.
-Ma come,- ho pensato, nonostante il battage pubblicitario e la magnificazione dell’evento da parte di tutti i media, la crisi è così forte da non avere spettatori per quello che si presentava come un capolavoro?-

Arrivati in sala, la cosa è apparsa meno grave in quanto assieme a noi erano presenti un’altra dozzina di spettatori.
Per dieci minuti abbiamo assistito alla pubblicità dei film in programmazione, con dei trailer mandati in onda ad un livello di decibel tale da ferire l’orecchio, oltre a pubblicità a favore della stessa sala, e contro la pirateria.
Fortunatamente il supplizio è terminato e l’audio è stato riportato a valori di quasi normalità con il partire dei titoli di testa, che facevano sapere al pubblico della decina di produttori e distributori che ci avevano consentito di poter assistere allo spettacolo.

Il film comincia e continua offrendoci una sequela di citazioni rubate principalmente dalla cultura napoletana e non solo, della seconda metà del secolo passato.
Solo la consapevolezza del livello di ignoranza in cui vive la maggior parte degli spettatori che hanno elogiato il film ci consente di comprendere come quella serie di cartoline sfocate, tenute insieme da una storia noiosa e falsamente onirica, possa aver suscitato tanto clamore.

Appare chiaro come il regista e la produzione, dopo il successo de “La grande bellezza” abbiano immaginato di poter produrre una serie di film similari, e che le origini napoletane potessero poter esprimere nuove suggestioni per la città.

In realtà quella presentata non è altro che il tentativo maldestro della messa in scena di quanto già fatto negli anni passati.
Tutto il film è la riproposizione di “Ferito a morte”, il capolavoro di Raffaele La Capria, a cominciare dall’ambientazione tra palazzo Donn’Anna e Capri, alla morte dell’amico in mare, agli aerei sostituiti da un improbabile elicottero.

Gli stereotipi proposti appaiono slegati tra di loro come la macchietta da avanspettacolo della figura del Cavaliere Achille Lauro, armatore e sindaco di Napoli, le cui malefatte sono già state ampiamente descritte da Francesco Rosi in “Mani sulla città”, o le figure degli omosessuali o dei femminielli rappresentati mirabilmente da Giuseppe Patroni Griffi nel suo libro “Scende giù per Toledo”, nonché le truculente scene come il bambino fatto di acqua e sale che ricorda la descrizione della sirena servita a pranzo da Curzio Malaparte, o l’immagine dei bassi napoletani con la visione delle grasse donne sedute a cosce aperte, fino alla scena della fusione con l’accoppiamento dei due giovani a suggello di un patto tra clan, che fa ritornare alla mente la verifica a pagamento della verginità di una ragazza da parte di soldati americani, proposta nello stesso libro.

Non meno esplicito il riferimento alle visioni Pasoliniane delle trasgressioni, dall’incesto, al dileggio dei valori religiosi, che culminano nella ridicola scena del cardinale che veste di paramenti sacri la giovane interprete.

Infine, la figura del professore è quella più vicina ad un cliché già sfruttato, con un riferimento a rivolte studentesche astratte dalla realtà, e a comportamenti tesi a magnificare l’intellettuale solo e fuori dal mondo, che nasconde un segreto inconfessabile, come l’uccisione del Preside, forse solo metaforica, ma capace di captare l’animo di una donna nata in acqua mentre “Dio odia il mare”.

In sintesi, un film noioso e slegato, misero tentativo di offrire un’idea intellettualmente coerente con una certa visione di una società che i grandi del secolo scorso hanno saputo esprimere attraverso libri che hanno segnato la continuità di pensatori nati e vissuti, o ispirati da quella città, che vengono però ridotti a farsa, e banalizzati in immagini suggestive che ricordano i magistrali scenari di Antonioni e degli altri artisti di oltre mezzo secolo fa.

Una società marcescente incapace di autocritica produce consenso interno alle bislacche proposizioni di portatori di verità, che vengono osannati perché criticarli sarebbe equivalente all’autocertificazione di un decadimento generalizzato di una generazione che ha smarrito la propria identità e rigettato, ignorandola ovvero non conoscendola, la propria storia e la propria cultura.

 

*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

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