Asteroid City: non puoi svegliarti se non ti addormenti

0
197

di Francesco Fiorillo

Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023, l’ultimo film di Wes Anderson è un esercizio di metacinema fantasmagorico, che intrattiene ma non convince davvero.  

 Lo stile di Anderson è inconfondibile: attenzione maniacale per le scenografie, colori pastello, personaggi bizzarri con buffe idiosincrasie, cast stellare e un amore sconfinato per il rétro e il modernariato.

Uno stile talmente iconico che è possibile trovare su YouTube un enorme numero di trailer-parodie delle più celebri saghe cinematografiche (da Star Wars a Il Signore degli Anelli) re-immaginate come se fossero girate dal celebre regista statunitense.

Eppure lo stile non è tutto: può rendere immediatamente riconoscibile l’identità di una pellicola, ma non può sostituirne i contenuti. Perché un film funzioni davvero, è necessario raggiungere un delicato equilibrio fra forma e sostanza. Ma soprattutto, è necessario che la pellicola sia accessibile al pubblico, che arrivi al suo cuore con un messaggio chiaro e potente.

La chiave del successo di Anderson è sempre stata questa: un perfetto bilanciamento di mente e anima. Le affettazioni dei suoi personaggi surreali non sono pretestuose, ma ne rivelano la natura di emarginati sognatori, li rendono vulnerabili e umani; e le sue scenografie vintage non sono pura cifra stilistica, ma un richiamo ad un mondo passato accogliente e familiare, nel quale possono prosperare le sue storie così commoventi.

Eppure in Asteroid City, il suo ultimo lavoro, questo equilibrio sembra vacillare. Gli elementi iconici ci sono tutti, ma la forma prevale sulla sostanza. Il messaggio si perde in una girandola onirica di luci e colori, come se  la pellicola fosse una caricatura di un suo film. Quasi una parodia, simile ai falsi trailer realizzati su YouTube.

 Alle storie semplici e chiare delle sue precedenti opere, stavolta il regista preferisce la strada dell’ermetismo: Asteroid City è un puzzle, un metafilm che si presenta come opera teatrale che parla di sé stessa, intrecciando diversi piani di realtà e creando la sensazione di trovarsi in un sogno.

La cittadina sperduta nel deserto, che dà il nome alla pellicola, è un palco sul quale si agitano diversi personaggi in cerca di un autore che non si trova.

 All’inizio della pellicola, un Narratore (il grande Bryan Cranston di Breaking Bad) ci avverte immediatamente: quello a cui stiamo per assistere è una rappresentazione scenica, il frutto dell’immaginazione di un allampanato scrittore (Edward Norton, sprecato). Una volta informati sul numero di atti che ci attendono, il film vero e proprio può iniziare: si alza il sipario.

 La storia è abbastanza lineare. Un gruppo di inventori adolescenti, accorsi ad Asteroid City assieme ai genitori per partecipare ad una premiazione, resta intrappolato nel deserto a causa di un incontro ravvicinato: un’astronave aliena appare nel cielo durante la cerimonia, e l’esercito decide quindi di mettere in quarantena la cittadina e tutti i suoi abitanti.

 Costretti ad una convivenza forzata, i giovani geni e i loro accompagnatori avranno modo di superare le loro barriere emotive ed esprimere sé stessi e i loro sentimenti. In particolare, lo stralunato fotografo di guerra Augie Steenbeck (l’attore feticcio di Anderson, Jason Schwartzman) potrà elaborare finalmente il lutto per la morte della moglie, grazie ad un breve flirt con la star del cinema Midge Campbell (Scarlet Johansson, rigorosa e convincente).

Ma se la storia è lineare, non lo è la struttura narrativa: alle scene colorate e strampalate di Asteroid City si alternano le scene in bianco e nero del Narratore, che mostra il retroscena dello spettacolo teatrale: dalla scrittura della sceneggiatura ai confronti fra attori e regista per discutere della natura dei propri personaggi.

Si instaura così una narrazione a specchio, in cui gli interpreti escono dai loro ruoli e si guardano da fuori, divenendo “spett-attori” che ci guidano nella comprensione dei propri tormenti interiori. Come nel bellissimo corto di Pasolini, Che cosa sono le nuvole?, i personaggi parlano di sé, commentano le loro azioni, condividono con il pubblico lo stupore per le loro scelte.  

Però. Però. Per quanto lo stratagemma sia affascinante, finisce per essere confusionario, impedendo al pubblico di calarsi davvero nella storia (perfino di comprenderla, a tratti), e nascondendo i significati reconditi del film dietro l’artificiosità di questa metanarrazione.Altra nota dolente riguarda il cast: sebbene sia effettivamente stellare (oltre ai nomi famosi già citati, appaiono in scena Adrian Brody, Matt Dillon, Steve Carell, Margot Robbie, Tom Hanks, Tilda Swinton, Jeff Goldblum, e Willem Dafoe), tutti gli attori appaiono poco sfruttati, relegati per la maggior parte a poco più di un cameo. Una scelta che appare un po’ troppo gratuita, e che davvero non aggiunge molto al valore della pellicola.

Insomma, Wes Anderson appare un po’ stanco e confuso, prigioniero dei suoi stessi cliché. Sembrano lontani i tempi della genuinità e semplicità de I Tenenbaum, o di Moonrise Kingdom. Il pericolo è che, con il tempo, il talentuoso regista possa diventare una farsa di sé stesso. Staremo a vedere, ma per ora Asteroid City appare un’occasione sprecata.

Ed è un vero peccato, perché la metafora della quarantena nel deserto come sonno della ragione, dal quale potersi risvegliare per rinascere, poteva essere molto efficace. «Non puoi svegliarti se non ti addormenti» ripetono in coro come un mantra tutti i personaggi, in una scena chiave del film.

Speriamo che Wes Anderson possa risvegliarsi presto dal suo torpore.

 

 

 

 

 

 

 

Loading

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui
Captcha verification failed!
CAPTCHA user score failed. Please contact us!