Storie di campioni: Pietro Mennea, la freccia del Sud

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-di Emanuele Petrarca

“Recupera, recupera, recupera, recupera, recupera. Ha vinto, ha vinto. Straordinaria impresa di Mennea!”. Come non ricordare, con le parole indimenticabili di Paolo Rosi, l’epilogo di una delle più grandi prestazioni dell’atletica leggera.

Un successo diventato storia, che ancor oggi rimane scolpito non solo nella memoria di chi poté assistere alla prima Olimpiade in mondovisione, ma anche in quella di tutti coloro che nel corso degli anni hanno potuto rivedere quelle immagini epiche.

Questa è la storia di una delle più grandi imprese dello sport italiano, ma soprattutto è la storia di un atleta che con perseveranza e voglia di vincere, tra grandi sacrifici ed allenamenti durissimi, ha toccato il cielo con un dito, con quel suo indice diventato leggenda.

Pietro Mennea iniziò la sua carriera sportiva con l’Avis Barletta, seguito dal prof. Franco Mascolo, prima di approdare a Formia, nel 1971, dove, con Carlo Vittori, costruirà un legame indissolubile. Nello stesso anno fece il suo debutto internazionale agli Europei di Helsinki, conquistando una medaglia di bronzo nella staffetta 4×100 mt., ma soprattutto il sesto posto nei 200 mt., la disciplina che lo renderà grande tra i grandi.

La sua prima Olimpiade, delle cinque disputate (che rappresentano un record per un velocista, con quattro finali consecutive dal 1972 al 1984), è quella di Monaco. Il 20enne barlettano vinse il bronzo dietro al fortissimo sovietico Valerij Borzov – che si era aggiudicato anche i 100 mt. – e allo statunitense Larry Black. Il primo grande successo, quindi, lo conquista nel 1974 agli Europei di Roma, titolo che confermerà quattro anni dopo a Praga nel 1978.

Mennea partecipò quattro anni dopo alle Universiadi di Città del Messico del 1979, in quanto iscritto alla Facoltà di Scienze Politiche e centra la finale senza troppi patemi. Non solo vince il titolo nei 200 mt., ma compie un capolavoro stabilendo il nuovo record mondiale sulla distanza con il tempo di 19’72”. Una prestazione incredibile, che resisterà per 16 anni e 324 giorni, fino ai Trials americani del 1996, quando Michael Johnson fermò il cronometro a 19’66”. Mennea non si accorse di quanto aveva fatto, seppur avesse staccato di oltre cinquanta centesimi il polacco Leszek Dunecki e il britannico Ainsley Bennett.

Solo dopo realizzò quanto aveva compiuto: “Un ragazzo del Sud, senza pista, oggi è riuscito a fare il record del mondo”. Un atleta che dopo ogni successo pensava alla gara successiva, allenandosi anche otto-nove ore al giorno.

Alla sua terza Olimpiade, invece, raggiunse il culmine di una carriera cui mancava solo il sigillo olimpico. Il suo carattere e il peso della tensione che lo vedeva tra i favoriti, ad un certo punto rischiarono di mandarlo in cortocircuito.

“Il suo vero nemico – come diceva Vittori – era se stesso”. Il 25 luglio 1980 venne eliminato a sorpresa nella semifinale dei 100 mt. Un colpo durissimo, che la stampa ebbe modo di criticare. Il suo grande avversario, lo scozzese Alan Wells, vinse la medaglia d’oro. A quel punto Mennea mise in dubbio la sua partecipazione ai 200 mt., ma Vittori lo spronò, cercando di liberarlo da quella responsabilità che lo sovrastava. La prova dei 200 mt. si svolse in due giornate.

Nella prima i 63 partecipanti affrontarono le batterie eliminatorie e successivamente i quarti di finale. Mennea s’impose in entrambe superando rispettivamente l’ungherese Ferenc Kiss e il sovietico Nikolay Sidorov. Il giorno seguente, nelle semifinali che qualificavano gli otto candidati alle medaglie, Mennea con il tempo di 20’70” sopravanzò il campione uscente Quarrie. Di lì la grande attesa.

Arrivò la sera in quell’interminabile giornata, mentre gli atleti, intorno alle ore 20, iniziavano ad avvicinarsi ai blocchi di partenza. La temperatura era di 23 gradi, con assenza di vento e con un’umidità superiore al 50%.  A pochi attimi dalla partenza i cubani Silvio Leonard ed Osvaldo Lara, i polacchi Woronin e Dunecki, il tedesco orientale Hoff e il giamaicano Quarrie erano alla ricerca della massima concentrazione. Mennea, cui la sorte non regalò nulla, partiva dall’ottava corsia, quella di solito riservata alle lepri, ma soprattutto senza punti di riferimento. Wells, invece, era in settima.

L’azzurro era tiratissimo, il suo corpo avvolto da un fascio di nervi. Si posizionò ai blocchi, mentre un giudice di gara, con giacca gialla e guanti neri, gli sussurrò qualcosa. La tensione era alle stelle. Il colpo dello starter decretò la partenza. All’imbocco della curva Mennea e Wells erano appaiati, ma poi lo scozzese allungò e sembrò quasi imprendibile; mentre Leonard e Quarrie avevano almeno due metri di vantaggio.

Nel rettilineo l’azzurro sembrava cedere, ma proprio in quel momento di difficoltà, quando tutto sembrava perduto, iniziò una progressione incredibile. Una reazione rabbiosa, che lo portò a recuperare metro dopo metro, fino a vincere con due centesimi di vantaggio sul grande rivale britannico e con dieci su Quarrie che precedette Leonard. Pietro Il Grande conquistò Mosca, ma soprattutto il cuore degli sportivi, con una rimonta incredibile, quella della resistenza alla velocità, la sua grande dote. E quell’indice al cielo in segno di vittoria si trasformò in oro, come il ricordo di un campione inimitabile, unico e straordinariamente vero. La nostra Freccia del Sud.

 

 

Immagine di dominio pubblico

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