-di Emanuele Petrarca-
Di Re Leone ce n’è uno solo, e nessuno può solo minimamente immaginare di avvicinarsi a tale grandezza. Lo pensano a Firenze, lo sostengono anche a Roma, dove due tifoserie non proprio abituate alle vittorie trovarono in quell’attaccante dalla folta chioma la risposta ai loro desideri.
Quelli che Gabriel Omar Batistuta riusciva a realizzare con la forza della determinazione, o se preferite con due gambe d’acciaio con le quali seminava il panico nel cuore delle difese avversarie.
Lui, il bomber che segnava in tutti i modi e in tutti gli stadi, moderno Robin Hood che rubava (calcisticamente parlando) ai ricchi per dare ai poveri perché ha sempre preferito farsi valere con la maglia della Fiorentina, piuttosto che accettare le grandi squadre estere.
Magari qualcuno avrà da ridire, pensando che a inizio millennio i soldi ai Sensi, proprietari della Roma, non mancavano, se è vero che arrivarono a sborsare 70 miliardi per portarlo alla corte di Fabio Capello. Ma sarebbe potuto andare al Milan, alla Juve, al Real, allo United, ovunque avesse detto di voler andare, in barba ai soldi e alle logiche del mercato.
Perché c’è stato un tempo, quello dell’epoca d’oro dei numeri 9, in cui Batistuta era il monarca indiscusso, l’uomo al quale era concesso di zittire il Camp Nou o Wembley, o di svettare sopra la testa di decine e decine di difensori sui campi della Serie A.
Di attaccanti come lui non se ne trovano più in giro. Come in tutte le storie che si rispettino, lo sbarco di Batistuta nel calcio del vecchio continente fu diretta conseguenza di uno scouting che non lo doveva riguardare.
E dire che la Fiorentina nei primi anni ’90 era una fidanzata tradita: aveva perso Baggio, preso dalla grande rivale Juve, e pensò di trovare un sostituto proprio in Argentina. Diego Latorre del Boca era il prescelto, ma a furia di vedere partite la dirigenza Viola si convinse che il vero affare l’avrebbe fatto portando in Italia proprio Batistuta.
Bati arrivò a Firenze nell’estate del 1991, accolto più da scetticismo che da reale entusiasmo e i primi due anni, a dire il vero, furono buoni ma non lasciavano presagire quel che poi Batistuta diverrà, tanto che la Fiorentina incredibilmente retrocedette in B.
Eppure, la Serie B fu proprio il momento che diede vita alla storia di “Batigol”. L’argentino, da quell’anno in poi, era un uomo in missione che estasiava il Franchi con la sua rabbiosa potenza mista a una eleganza sopraffina.
Da quel momento Batistuta è l’uomo più decisivo che può esserci nel panorama calcistico: vince una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e rifiuta, ogni anno, qualsiasi offerta delle big perché, intanto, non era diventata più solo una sfida personale contro le superpotenze italiane… Batistuta di Firenze si innamorò davvero.
Voleva vincere a Firenze più di ogni altra cosa e in parte lo fece. Solo un infortunio fermò la cavalcata di una Viola che avrebbe potuto vincere lo Scudetto.
Tra dissidi societari e la voglia di mettere un tricolore in bacheca, Batistuta a cavallo degli anni 2000 decide di partire per unirsi alla Roma di Capello. Una scelta non facile per nessuno, sofferta anche per lui, ma vincente.
Con Totti, Delvecchio e Montella forma una linea offensiva da urlo, e al primo colpo lo scudetto arriva per davvero, grazie anche a 20 reti che pesano come un macigno. Sapeva di avere una sola cartuccia da sparare e puntualmente azzecca la mira, coronando il sogno di una vita. L’anno dopo rivince la Supercoppa, proprio contro la “sua” Fiorentina, alla quale nel frattempo non hanno posto rimedio neppure i 70 miliardi incassati dalla sua cessione.
Firenze sta per conoscere il fallimento, Batistuta semplicemente sta per pagare il conto a un fisico che fatica a sostenerne il peso: gli infortuni lo tormentano, l’ultima campagna mondiale con la nazionale è fallimentare (ma almeno firma l’unica vittoria contro la Nigeria, salendo a 10 reti complessive in tre edizioni), a Roma ormai gli stimoli vengono meno.
Un prestito fugace all’Inter, poi un biennio in Qatar, prima di arrendersi a una caviglia bizzosa che lo condizionerà anche nel post carriera, tra dolori indicibili e la voglia di una vita normale che tarderà a venire. Ha dato tutto per il calcio, il Re Leone.
Che voleva essere un buon pallavolista, ma che il destino ha voluto offrire al mondo come uno dei bomber più forti del calcio argentino. E l’onore è stato tutto nostro.