-di Clotilde Cioffi-
“La leggerezza della vita piena” è a tutti gli effetti un ossimoro, due concetti contrastanti, opposti: leggerezza e pienezza. La prima è la sensazione che proviamo nello stare armoniosamente con il prossimo, mentre “la pienezza” è quella completezza morale e comportamentale che include regole di vita, scelte etiche regolate nel rispetto della nostra persona e di chi, anche occasionalmente, venga a contatto con noi, privilegiando atteggiamenti non ingombranti ma consapevoli.
Per cogliere una tale opportunità bisogna necessariamente dare senso ad una esistenza che, troppo spesso, in preda all’egoismo individuale e a quello di massa, cede all’indifferenza, all’analfabetismo emotivo, in un mondo desacralizzato che vive del presente dimenticando il passato e sgretolando il futuro; un mondo in cui “l’altro da noi” non esiste, e nel progetto di vita neanche è contemplato il limite oltre il quale finisce la nostra libertà e inizia quella degli altri.
Un discorso di tal genere trova non poche difficoltà in una società in cui la famiglia e la scuola hanno difficoltà a svolgere il loro ruolo educativo.
E allora, quando parliamo di buone maniere, difficilmente troviamo riscontro negli altri, talvolta, inconsapevoli della efficacia di pochi gesti quotidiani particolarmente utili a migliorare una vita basata su un progetto di convivenza.
Le buone maniere sono quei gesti semplici ma concreti che aiutano a conquistare la leggerezza della vita piena.
La comunicazione è una esigenza dell’uomo ma il proliferare di diversi e sempre più avanzati mezzi di comunicazione hanno favorito un’ alterazione di quelle che sono le misure giuste e le buone maniere, volte a stabilire un corretto contatto con il prossimo.
Pur non volendo essere nostalgici, pur non condividendo il rigoroso rapportarsi di un tempo dei figli verso i genitori ai quali si rivolgevano dando il “voi” e accettando consapevolmente l’evoluzione dei tempi, sembra quanto mai inopportuno il così frequente e indiscriminato odierno uso del “tu” senza che esso trovi ragione del suo essere in alcun rapporto di confidenza o addirittura di conoscenza tra gli eventuali interlocutori .
Una abitudine quanto mai inopportuna che, secondo Umberto Eco, sottende ”una finta familiarità che rischia di trasformarsi in insulto”, una arbitraria licenza che tende “ad impoverire la nostra memoria e il nostro apprendimento”. L’illustre linguista ripercorre storicamente l’uso del “tu” frequente in epoca romana, il “Voi” particolarmente utilizzato in età medievale, il “Lei”, in voga nel clima cortigiano cinquecentesco e puntualizza le regole fondamentali della grammatica italiana che a proposito di pronomi personali li distingue in allocutivi ,reverenziali e di cortesia ……
Il “tu” nasce da una grande e comprovata familiarità e se usato indiscriminatamente rappresenta un viatico per ulteriori libertà; il “voi” è conseguenza di un rapporto di rispetto verso l’altro dettato dalla diversa età, da una frequentazione lavorativa, da una garbata confidenza; il “lei” è utilizzato per rapporti più formali, privilegiati, rimanendo il segno “unico e distintivo del legame speciale che ci unisce all’altro…”
Il rispetto per chi non conosce la nostra lingua è indiscutibile, il sostegno a chi non ignora le nostre consuetudini esige un necessario accurato percorso educativo, la comprensione per chi non conosce la nostra storia è un dovere sociale, ma un obbligo morale è combattere la perdita generazionale delle competenze linguistiche e della conoscenza storica del nostro passato, condizioni indispensabili per costruire la giusta attitudine ad approcciarsi ad un mondo di relazione con l’altro per vivere dignitosamente il presente e preparare un costruttivo futuro di “legami speciali e rispettosi tra gli uomini”, utile a vivere in prospera armonia.