Il caso di Martina Rossi. Dov’è la Giustizia?

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-di Michele Bartolo-

E’ di qualche giorno fa la notizia che la Corte di Appello di Firenze ha condannato a tre anni ciascuno Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, imputati nel nuovo processo di appello, a seguito del rinvio disposto dalla Corte di Cassazione, relativo alla morte di Martina Rossi, la studentessa di 23 anni ufficialmente precipitata  nell’agosto del 2011 dal balcone del sesto piano dell’Hotel Sant’ Ana di Palma di Maiorca.

In un primo momento, infatti, la magistratura spagnola aveva sbrigativamente liquidato il caso come suicidio ma la tenacia dei genitori di Martina ha permesso che il caso venisse riaperto dalla magistratura italiana, nello specifico dalla procura di Genova, poi trasferito per competenza ad Arezzo, sino alla formale imputazione dei due giovani aretini, conosciuti dalla vittima in vacanza, che si sarebbero resi responsabili di un tentativo di stupro nei confronti di Martina.

La ragazza, quindi, proprio per sfuggire alla violenza, volava giù dal sesto piano in preda allo spavento. Inutile dire che anche questo caso, come tanti altri procedimenti giudiziari giunti alla ribalta mediatica, è stato caratterizzato da colpi di scena e da pronunce discordanti dei vari giudici che si sono occupati della vicenda.

Nel processo di primo grado, infatti, i due erano stati condannati dal Tribunale di Arezzo a sei anni di reclusione ma poi assolti nel primo processo di appello, in quanto i giudici del gravame avevano dato prevalenza, per le modalità del lancio dal balcone, a un presunto intento della ragazza di togliersi la vita. Tuttavia, a seguito del rinvio disposto dalla Cassazione ed all’esito di una miglior verifica del preciso punto di caduta della ragazza, che in realtà cercava di mettersi in salvo, raggiungendo un altro terrazzo, gli imputati venivano dichiarati colpevoli dalla Corte di Appello di Firenze, che quindi li condannava, per il delitto tentato di violenza sessuale di gruppo, riducendo peraltro la pena a soli tre anni.

Orbene, è comprensibile e condivisibile il disorientamento di un cittadino comune rispetto ad una vicenda come quella che abbiamo brevemente ripercorso. E come questa, se ne potrebbero citare tante altre. In primo luogo, infatti, il sistema del diritto penale in uno Stato di diritto ha ragion d’essere proprio perché deve qualificare come reato e comminare la conseguente pena ad un fatto che viene generalmente e concordemente inteso dalla collettività come un comportamento caratterizzato da un grave disvalore sociale e come un attentato alla civile convivenza.

Da un lato, cioè, la determinazione della pena per la commissione di uno specifico reato è la punizione che la società richiede e lo Stato  applica ad un colpevole, dall’altro costituisce un deterrente per tutti i cittadini affinché non vengano commessi reati simili.

Tornando al caso in esame, una prima reazione di sgomento è come uno stesso fatto, peraltro così eclatante e grave, possa essere valutato in modo contrastante, per non dire totalmente difforme, dai diversi giudici impegnati nella sua ricostruzione. Ciò non significa, intendiamoci bene, mettere in discussione i principi di uno Stato di diritto e quindi la presunzione di innocenza del colpevole e lo svolgimento del giusto processo, con pieno diritto di accusa e difesa di confrontarsi in modo paritetico nella ricerca della verità processuale, sperando che possa avvicinarsi il più possibile a quella reale.

D’altronde, questa ricerca della verosimiglianza  giustamente coinvolge tutti gli operatori del diritto, tanto è vero che la stessa magistratura inquirente, quando inizia le indagini su una persona, la informa dei suoi diritti tramite la notifica di un avviso di garanzia, in quanto le indagini devono essere svolte a garanzia dello stesso indagato, raccogliendo elementi utili anche al suo proscioglimento e non solo alla sua incolpazione. Questo proprio perché, in uno stato democratico, fondato sul rispetto dei diritti fondamentali della persona, la pubblica accusa non si identifica con un inquisitore senza scrupoli ma rappresenta la collettività, ciascuno di noi, che ha diritto alla verità di una sentenza, che può comportare la condanna di un colpevole ma anche il proscioglimento di un innocente, all’esito dello svolgimento delle indagini a suo carico.

Ferme restando, quindi, queste giuste premesse, a me pare che la ricerca della verità non possa spingersi sino ad alimentare un forte senso di sfiducia nella macchina della Giustizia, che alla fine rimane incagliata, per anni, nell’affannoso tentativo di dare una risposta definitiva e certa alle aspettative dei soggetti coinvolti, siano essi parti offese o imputati. Nel caso che ci occupa, infatti, questa povera ragazza è morta nel 2011 e dopo dieci anni la giustizia è arrivata a determinare la responsabilità degli imputati per la sola tentata violenza, applicando loro la pena di tre anni di reclusione ciascuno. Inutile dire che, nel frattempo, il reato di morte, come conseguenza di altro delitto, si era prescritto.

Il risultato è presto detto: la pena comminata, che dovrebbe costituire la giusta punizione per il colpevole, come dicevamo all’inizio, è davvero risibile, quasi paragonabile a quella di un ladro di galline, mentre la funzione di deterrenza, per chi volesse commettere reati simili, è del tutto inesistente, anzi forse determina l’effetto opposto di  emulazione, dal momento che difficilmente un misero ladro di galline può ambire alla ribalta mediatica o addirittura a scrivere un libro.

Di chi è la colpa? Tanti sono i mali che affliggono la nostra Giustizia e tanti sono i correttivi che dovrebbero adottarsi per rendere compatibile il nostro sistema giudiziario con i principi teorici dello Stato di Diritto e, al tempo stesso, con le speranze e le attese della collettività. In tale ottica, bisogna sicuramente intervenire sul sistema della prescrizione e sulla tempistica del processo, perché una condanna non arrivi monca dopo dieci anni, così come deve porsi un freno al potere discrezionale del magistrato, il cui libero convincimento deve essere adeguatamente e necessariamente supportato da una motivazione congrua, esaustiva e coerente con le risultanze probatorie del processo.

Nelle more, il rischio che corriamo è quello ben rappresentato dalle parole di Marco Pannella, il quale, avvicinato da un signore che gli chiese dove fosse il Palazzo di Giustizia, rispose: “Il Palazzo è là, la Giustizia non lo so”.

 

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