Sulla sorte del Partito Democratico

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di Pierre De Filippo-

Puntualmente, dopo ogni tornata elettorale – come per ogni 2 novembre – si profila il de profundis del Partito Democratico, che deve cambiare, cambiare sempre, anche se non si capisce bene in che direzione; che deve cambiare nome – I Democratici? – e classe dirigente.

Tanto per cambiare, verrebbe da dire.

Il Pd negli ultimi dieci anni è stato al governo in nove, un po’ tanto per non essere tacciato di immobilismo, di attaccamento alle poltrone, di tutti i mali che, in questi anni, abbiamo vissuto e conosciuto.

Eppure, noi abbiamo conosciuto i Pd, non il Pd: c’è una profonda differenza tra quello di Renzi e quello di Zingaretti, così come c’è una profonda differenza tra quello di Bersani e quello di Letta. Delle differenze talmente marcata da farci chiedere se è dello stesso partito che stiamo parlando e non già di soggetti diversi, alternativi, antitetici.

Ma se è vero come è vero che la classe dirigente del Partito democratico non ha mai svelato l’arcano su cosa vuole fare da grande, è anche vero che nemmeno gli elettori, gli attivisti, gli iscritti hanno mai chiarito cosa vogliono da questo martoriato partito.

La politica del borbotto l’ha colpiti e pare che non riescano ad articolare più un discorso di senso compiuto.

Renzi piaceva perché era il rottamatore, l’uomo nuovo, quello della “Terza via” anglosassone, quello che doveva pensionare i Bersani, le Bindi, i D’Alema.

È durata un po’ e poi Renzi è “diventato di destra”, cose se lui si fosse presentato laburista in precedenza…

E allora la comunità è corsa ai ripari: col referendum costituzionale del 2016 non solo Renzi ma tutto il “renzismo” andava archiviato. Il Pd doveva tornare un partito di sinistra, massimalista, battagliero, vicino ai lavoratori e alla gente che soffre.

Dopo varie parentesi e parentesi delle parentesi (vedesi Martina, Epifani e simili) e dopo la batosta alle politiche del 2018 arriva la segreteria Zingaretti.

Uomo di partito e delle istituzioni ma, soprattutto, uomo di sinistra.

Sinistra quella vera, che si riconosce dal fatto di proporre sempre cose inattuabili. L’uomo della svolta insomma.

Con lui, Giuseppe Conte è stato prima il fantoccio di Salvini e poi “un punto di riferimento per tutti i progressisti”. Con lui ha fatto il Conte bis perché tirato dalla giacchetta da Renzi e sempre da Renzi è stato poi fregato, come tutti.

Una segreteria che ha reso il Partito democratico più rosso ma non per questo meno perdente. Sì, d’accordo, qualche regione conquistata, sì, d’accordo, qualche comune importante. Ma mai un partito maggioritario.

Così, anche Zingaretti viene archiviato e, a furor di popolo, come si usa dalle parti di Largo Nazareno, viene chiamato il prof di Parigi, quell’Enrico Letta sul quale, per la prima volta, s’era vista la vera natura di Renzi. Che era rimasto sereno mentre il suo avversario un po’ meno.

Un’altra svolta, che la comunità dem non ha però compreso.

Dal “comunista Zingaretti” al “liberale Letta” il passo non è così breve ma, visto che in Italia si valutano le persone e non le loro idee, Letta era alternativo a Renzi e quindi in continuità con Zingaretti.

Ora, la vera domanda è questa: alle elezioni di una settimana fa Sinistra italiana e Verdi hanno preso insieme poco più del 3%. Non un nubifragio di consensi, per usare un eufemismo.

A destra il moderatismo berlusconiano è stato superato dal radicalismo meloniano e gli elettori hanno fatto capire cosa volevano. A sinistra, come sempre, si discetta di formule magiche dimenticandosi la realtà.

E parlo degli elettori prima ancora che degli eletti.

Quindi?

La verità è che c’è un unico leader che metterebbe d’accordo tutto l’elettorato di sinistra: Giuseppe Conte. Quello che ha firmato i decreti sicurezza.

Ma che è assistenzialista, giustizialista, populista, collaterale ai sindacati, anacronistico.

Ma che ha una bella faccia.

E, nella nostra politica, questa è l’unica cosa che conta.

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