Quirinarie. Giorno 6

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di Pierre De Filippo-

“Sto lavorando affinché il prossimo Presidente della Repubblica sia una donna”. Salvini lo dice alle 19.50 a scrutinio non ancora concluso. E la notizia è clamorosa, per quanto attesa. Lo conferma anche Giuseppe Conte, a microfoni spiegati, e Beppe Grillo in un post sui social.

Il nome che circola, ed è certamente il più forte, è quello dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni, ex segretario generale della Farnesina e, come dicevamo, ora a capo del DIS, il Dipartimento per le Informazioni sulla Sicurezza.

Proprio su questo punto, di opportunità e di opportunismo, il vociare di protesta si fa però marcato. Renzi è duro: “Elisabetta è un perfetto capo dei Servizi segreti, un’amica. Solo chi ha la cultura politica dei Gormiti non lo capisce…”.

A ruota Forza Italia, con Licia Ronzulli che si dichiara indisponibile, Leu che evidenzia le stesse problematiche e Marcucci del PD che chiede che il nome venga votata dall’assemblea del partito.

Ergo: i problemi non sono mica finiti, come si pensava in serata e come, con entusiasmo, avevano annunciato Salvini e Conte.

A prima mattina, Forza Italia e Coraggio virano su Casini, con la solita sciarpa del Bologna al collo, che in transatlantico si muove e inciucia come un vero democristiano. Prima con Licia Ronzulli e Renzi, poi Romeo della Lega e Marcucci del PD. Fa il piacione, come sempre. La sua candidatura pare forte, solida per quanto non pienamente inclusiva. Ma in aula può avere i numeri, e questo conta.

Poi, però, a mezza mattinata Salvini si arrende: “se non ci mettiamo d’accordo, torniamo da Mattarella”

È la resa. La resa definitiva.

Giorgia Meloni, che aveva urlato alla “latente misoginia italiana” quando la Belloni era stata capottata, tuona nuovamente: “Salvini dice di andare a pregare Mattarella? Non ci credo”.

“Ho fatto ventidue proposte” – prosegue il leader del Carroccio – “non ne andava bene una. Draghi resta a Palazzo Chigi, Mattarella al Quirinale e il Parlamento riprende a lavorare…”. Ma è provato in volto.

A dissipare ogni dubbio le parole di Casini “il mio nome venga tolto, c’è solo quello di Mattarella”.

La partita è chiusa.

È, in verità, il fallimento di Salvini come leader: avere il boccino in mano comporta oneri e oneri, visibilità e responsabilità. Al netto dell’ostruzionismo che ha potuto ricevere, se sai di non avere i numeri devi arrivare alla quarta con una candidatura talmente forte e inappuntabile da chiudere prima che le acque si guastino nuovamente. Non lo fa e presta il fianco a Giorgia Meloni che, placida nel suo splendido isolamento, raccoglie frutti senza sforzo.

È il fallimento anche di Conte che, con entusiasmo, parla di “una donna”, senza fare prima i dovuti passaggi interni, tanto che Di Maio gli risponde a mezzo social.

È il fallimento di un certo modo di fare politica.

Si salva Letta, che almeno non ha dato seguito all’orgasmica voglia di parlare che avevano tutti, predicando calma e sangue freddo. Ma soprattutto ne esce rafforzato Renzi, almeno in termini simbolici: sette anni fa risolse la questione in quattro e quattro otto. Era lui il Matteo kingmaker e riuscì, occorre dargliene atto.

Cosa aspettarsi adesso dal povero Sergio? Forse una requisitoria non meno dura di quella che lasciò ai parlamentari Napolitano nove anni fa, che lo applaudirono perché, evidentemente, non ne capirono il senso; forse, toni più soft perché la pandemia ancora incombe. Presto lo sapremo.

Simbolo di pacatezza, serietà, dolcezza in un momento senza eguali della nostra storia.

A dimostrazione del fatto che, come per la rosa, anche per gli uomini ciò che rimane è sempre il nome, solo il nome. Ciò che hanno fatto e ciò che hanno lasciato.

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