Era Di Maio o Gregor Samsa?

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di Pierre De Filippo-

Quella di Luigi Di Maio è stata una metamorfosi degna del miglior Samsa e del miglior Kafka. Una inversione a U tra le più mirabolanti della storia politica italiana che pure di certe cose se ne intende.

Dall’ “uno non vale uno”, all’elogio della conoscenza e della competenza; dall’apprendere dagli errori fatti all’ammissione di un mondo più complesso di come loro – nel Movimento – l’avevano raccontato, fino alla denuncia del clima d’odio nato contro di lui.

Lo ha definito proprio così, “clima d’odio”, quello al quale ritiene, e non a torto, di essere stato esposto dai suoi ex sodali e, forse, ex compagni di partito.

A metà tra il “clima infame” di cui, trent’anni fa, parlava Craxi nella torrida estate del 1992 e quel “a questo gioco al massacro io non ci sto” pronunciato dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. È in buona compagnia Luigi Di Maio, che dalla Farnesina cerca di guidare l’Italia nelle relazioni internazionali in un momento di guerra, forte del sostegno del Premier Draghi.

S’è definito atlantista ed europeista, che per uno che strizzava l’occhio alla Cina e solidarizzava coi gilet gialli è una bella conversione, certamente più profonda di quella di Paolo sulla via di Damasco.

Che Di Maio e Conte fossero ai ferri corti s’era capito già da qualche mese: l’incipit di questa tragicommedia la possiamo datare all’elezione del Presidente della Repubblica, quando Conte – seguendo l’impervia strada tracciata dal mitico Matteo Salvini – “chiuse” l’accordo sulla Belloni, quello che Renzi fece saltare tre secondi dopo.

Gigino rimase impassibile e freddo: c’è bisogno di silenzio, disse, da buon irpino. Non lo ascoltarono.

Poi Conte diventò improvvisamente uno sprovveduto, Grillo ne era convinto. E dire che il Movimento tanto aveva insistito per affidare per tre anni il Paese ad uno “sprovveduto”. Salvo poi fare marcia indietro e affidargli armi e bagagli del bagaglino grillino.

 

Ora ci risiamo: Conte critica il governo per le armi a Kiev, per le spese militari, per la sua politica estera, per la sua sottomissione alla Nato, perché esiste. E dubita perché sono “molti gli italiani” che gli chiedono di staccare la spina a questo governo.

Una precisazione determinante l’ha data nei giorni scorsi il Presidente della Camera Roberto Fico: “non c’è nessun Conte contro Di Maio”, dice, “tuttalpiù c’è un Movimento contro Di Maio”. Prendi e porta a casa, verrebbe da dire; nemmeno la prossimità geografica tra i due ha contato in questo caso.

Ma non è il solo, Fico, pur essendo il più autorevole.

Secondo Gubitosa, “Di Mario ha fatto una baracconata a Montecitorio” mentre per la Taverna, “ormai parla come Renzi”. A chiudere il cerchio Grillo che, intervenendo sulla querelle sul triplo mandato, ha detto che le regole non cambiano per fare un favore a qualche “vero o sedicente grande uomo”.

Tutti gli indizi portano a pensare che si stesse riferendo all’inquilino della Farnesina.

 

In serata, inesorabile, arriva l’annuncio in conferenza dell’addio dei dimaiani. Sono tanti, tantissimi; molti di più del previsto. Sono deputati, senatori, ex ministri e sottosegretari. Sono l’ala destra del Movimento, quello che non si riconosce più nelle mattate di Di Battista e nella felpata ipocrisia un po’ narcisistica di Conte. E a Di Maio non sembrerà vero nemmeno di liberarsi di quel padre padrone che, ogni tanto ma spesso a sproposito, entra a gamba tesa a colpire le caviglie: Beppe Grillo.

Nasce Insieme per il futuro, che non ha – parola di Vincenzo Spadafora – una precisa collocazione politica ma non è l’ennesima “mossa del cavallo”. È un progetto che vuole avere, o almeno ci prova, un futuro dopo le elezioni del 2023.

Una piroetta che, paradossalmente, rafforza il governo Draghi, del quale Di Maio dice orgoglioso di far parte e che conquista il voto favorevole del Parlamento sulle raccomandazioni proposte rispetto al futuro della posizione italiana in guerra.

E ora che succederà, viene da chiedersi? E chi diavolo lo sa, verrebbe da rispondere. Una nota positiva è che così, con più determinazione, si andrà verso una legge elettorale proporzionale, sperando che questo serva, dopo le elezioni dell’anno prossimo, a tenere ancora Draghi a Palazzo Chigi.

 

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