di Pierre De Filippo-
Per la prima volta nella giovane storia repubblicana italiana, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, eletto l’anno precedente, decise di sciogliere le camere anticipatamente.
C’era, nel dibattito pubblico italiano, un tema nuovo: il divorzio.
Nel 1970 due laici, il liberale Baslini ed il socialista Fortuna, erano stati primi firmatari della legge che, anche in Italia – il Paese cattolico per eccellenza – aveva introdotto l’aborto.
Immediata, a destra, era partita l’organizzazione del referendum abrogativo, anch’esso il primo della storia repubblicana, dopo quello del 1946 tra monarchia e repubblica.
L’approvazione della legge sul divorzio, però, era qualcosa di ben diverso da ciò al quale si era assistito in quegli anni ad alto tasso riformistico: introdurre lo scioglimento del matrimonio era simbolicamente ben più importante rispetto alla pur necessaria introduzione delle regioni a statuto ordinario e altrettanto più importante rispetto all’approvazione dello Statuto dei lavorati, entrambi i provvedimenti datati 1970.
Il divorzio sanciva, di fatto, la definitiva secolarizzazione della nostra società, che avrebbe conosciuto negli anni a venire la riforma del diritto di famiglia, l’introduzione dell’interruzione volontaria di gravidanza, l’abrogazione del delitto d’onore.
C’era aria di modernità.
Ma anche di conservatorismo: Amintore Fanfani, infatti, insieme alla destra missina guidata da Giorgio Almirante, era il più strenuo sostenitore del referendum abrogativo, per svolgere il quale il nuovo Presidente del Consiglio, il lucano Emilio Colombo, fu costretto in fretta e furia a far approvare una legge – la 352 del ’70 – che regolamentava il nuovissimo istituto di democrazia diretta.
Fu anche per questo, per consentire alle forze politiche di organizzarsi per la battaglia e per rimescolare il parlamento, che le camere vennero sciolte anzitempo.
Il contesto internazionale, oltretutto, era cambiato: a Washington Nixon s’era posto in maniera molto più morbida rispetto a quanto il suo passato facesse immaginare e Breznev era certamente un interlocutore più stabile rispetto al folkloristico Kruscev; in Italia, Paolo VI era politicamente attivissimo ed attento osservatore della politica italiana.
Il PCI aveva eletto un nuovo segretario: il vecchio ed affaticato Longo aveva ceduto il passo ad un “giovane” sardo, dell’ala centrista di un partito che, per la prima volta nella sua storia, si stava organizzando in correnti: Enrico Berlinguer.
Scettico rispetto alle imposizioni di Mosca, conservatore in materia di famiglia, austero, accusato d’essere triste, Berlinguer stravolgerà, negli anni a venire, il comunismo europeo nella sua ragione d’essere.
Ma le elezioni premiarono la destra: il MSI, sempre più di piazza che di istituzioni, sempre più a immagine e somiglianza del suo carismatico segretario, con un balzo uscì dalle urne forte, robusto e solido. Le vicende di Reggio Calabria – gli scontri del 1970 per l’individuazione del capoluogo di regione, conteso con Catanzaro – diedero al partito di Almirante nuova linfa e lo posero come autorevole baluardo contro la paventata “deriva comunista”.
Mentre pareva che il mondo e l’Italia andassero a sinistra, nel ’72 vi fu la clamorosa inversione ad U, verso destra.
Ma era un fuoco di paglia: i successivi eventi – dalla guerra del Kippur al golpe cileno – riorientarono nuovamente il quadro, facendo emergere nuovi protagonisti.