di Pierre De Filippo-
Sono quasi le 20.00 in Italia quando Joe Biden, con una lettera aperta alla popolazione americana, annuncia che non sarà lui il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, che si deciderà il 5 novembre di quest’anno.
Voci di questo genere si rincorrevano ormai da settimane, da quando, praticamente, il vecchio Presidente era uscito sconfitto dal confronto in diretta televisiva con Donald Trump. Impacciato, goffo, era apparso sempre più in crisi e frastornato.
Ma probabilmente sarebbe riuscito a rimanere in corsa se non ci fossero stati gli ultimi eventi, se non avesse chiamato il Presidente ucraino Zelesky “Putin” e se non avesse chiamato la sua vicepresidente Kamala Harris “Trump”. Tutto questo, prima del grande botto, quello che a Trump è costato un lembo d’orecchio e a Biden la candidatura.
Il fallito attentato al tycoon populista ha fatto di lui un martire. “Ho preso una pallottola per la democrazia”, ha detto. Quella stessa democrazia che non si è fatto problemi ad umiliare tre anni e mezzo fa a Capitol Hill, quando quegli uomini con le corna in testa misero a ferro e fuoco il Congresso.
Cose da pazzi, verrebbe da dire; e dopo quattro anni siamo ancora qui a parlare di un Trump – quel Trump – probabilmente rieletto alla Casa bianca. Come se niente fosse stato.
Dice bene lo sceneggiatore Aaron Sorkin, molto ascoltato dalle parti del Partito Democratico: i democratici, dice, dovrebbero candidare il repubblicano Mitt Romney, già candidato alla presidenza nel 2012 contro Obama. Perché il problema non è democratici vs repubblicani ma chi vuole vivere in un Paese democratico, liberale e civile contro Donald Trump.
Con tutta evidenza, non sarà Romney il candidato democratico.
Joe Biden ha detto che nessuno meglio di Kamala Harris può portare avanti il suo testimone. Perché una cosa va detta, prima di parlare della vicepresidente: il giudizio sull’amministrazione Biden, al netto delle gaffes e degli svarioni, è positivo, è positivo sotto ogni punto di vista e per ogni parametro. Ma questo, nell’epoca degli show televisivi, dove si vota per il candidato più impaillettato conta poco.
Dunque, Kamala.
Kamala che non ha brillato in questi quattro anni e, dicono i maligni, anche per questo Biden ha impiegato così tanto tempo per decidersi a fare un passo di lato.
Kamala che viene dalla California, uno Stato che è quasi avulso, tanto e grande e importante, dalle dinamiche nazionali. Il fatto di essersi trovata a gestire – e lo ha fatto con difficoltà – il dossier immigrazione sarà certamente un punto debole, un punto sul quale Donald Trump e il suo neonominato candidato alla vicepresidenza JD Vance l’attaccheranno.
Ma Kamala è anche una donna ed è ispanica e questo rappresenta certamente un punto di forza. Intanto, dopo il passo indietro di Biden i finanziamenti, che si erano bloccati per paura che andassero sprecati, hanno ripreso ad affluire.
Una bella notizia se si considera che Elon Musk darà a Trump quarantacinque milioni al mese.
Kamala, ricordiamolo, non è ancora la candidata ufficiale dei democratici. Alla convention che si terrà a fine agosto, i delegati di Biden potranno votare chi vogliono. Ma la speranza di tutti è che si trovi una quadra, come pare stia già accadendo, attorno al nome dell’attuale vicepresidente.
Chi non si è espresso ancora a suo favore, e non è poco, è Barack Obama. Staremo a vedere.
L’asso nella manica di Kamala, dicevo, può essere la persona con cui correrà in ticket. In molti fanno il nome di Josh Shapiro, governatore dello swing state della Pennsylvania. O il segretario ai Trasporti Pete Buttigieg. Difficile una donna.
La partita per la corsa alla Casa Bianca si rimescola. Alla fine di quest’estate il quadro sarà necessariamente più chiaro
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