La stanza rosa. Il coraggio di Lola D’Arienzo

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inizia da oggi una nuova rubrica su salernonews24, “La stanza rosa”.

A scrivere sarà Apollonia D’Arienzo, Lolita, Lola per gli amici. Una donna meravigliosa con una forza ed una bellezza fuori dal comune.

Lola, dopo questo primo articolo di presentazione aprirà un dialogo con i lettori che potranno scrivere al nostro giornale (email: direttore@salernonews24.it; whatsapp: 3381621780) per inviarle pensieri, domande, per parlare con lei.

Lola risponderà con tutta la forza di cui è capace. Risponderà dalla sua stanza rosa, dal suo letto a cui è inchiodata da 25 anni a causa della Sla, risponderà parola su parola attraverso il movimento degli occhi, ma per lei sarà un modo per conoscere nuovi amici e aprire una finestra sul mondo. Sarà un modo per tenerci per mano, un modo per darci forza a vicenda, perché Lola di forza ne ha da vendere.

 

Sono Apollonia D’Arienzo, per gli amici Lola. Sono nata nel 1960 a Vietri sul mare, un piccolo ma grazioso paesino alle porte della costiera amalfitana.
Ero una ballerina di danza classica.
A 19 anni aprii la mia prima scuola di danza classica.
Agli occhi delle mie allieve ero una maestra piena d’amore ma allo stesso tempo molto severa.
Nel 1984 sposai il mio fidanzato storico. Abitavo a S. Pietro , una piccola frazione di Cava de’Tirreni,  in un appartamento che i miei mi avevano comprato. Vittorio nacque nel 1988 , era uno splendido bimbo molto vivace.
Avevo 37 anni quando una orribile malattia, la SLA, mi ha cambiato la vita. Ora, dopo 25 anni sono qui a raccontare le vicissitudini della mia vita. Vorrei lanciare un grido di speranza per quelli che versano nelle mie stesse condizioni e scuotere quanti sprecano la propria esistenza per problemi banali.

All’inizio della mia malattia scesi a casa di mia madre, con l’intento di ritornare a casa mia non appena mio figlio fosse rientrato dalle vacanze .
Mio marito mi confessò, quando la malattia si aggravò, che mi tradiva da prima del matrimonio e che voleva farmi assistere dalla sua amante. Perciò ci separammo e rimasi a casa di mia madre che era rimasta sola perché mio padre era venuto a mancare nel 1992. Quando scesi a casa di mia madre mio figlio aveva 12 anni .
Fu molto dura per lui psicologicamente. Non poteva sopportare l’abbandono e per molti mesi si rifiutò di incontrarmi. Combattei per riaverlo ma ci fu una psicologa deputata dal giudice del tribunale di Salerno che stabilì che non potevo accudirlo perché ero disabile e che sarei morta di lì a poco .
Ho subito molte ingiustizie perché lo Stato, che si fregia di tutelare le fasce più deboli, in realtà protegge solo i forti e si arresta di fronte ai giudizi della millantata normalità.
In quella occasione cominciai la mia battaglia in difesa di tutti i disabili ai quali viene negato il diritto di crescere i propri figli.
Oggi posso con certezza affermare che non furono previste le conseguenze devastanti di quelle sentenze, diagnosi e terapie, difatti io sono ancora viva. Se sono ancora qui è proprio grazie a mio figlio che, diventato uomo, si è riavvicinato a me. Oggi come allora
insieme all’esenzione del ticket noi disabili siamo stati esentati anche da alcuni diritti che sono ovvi per tutte le altre persone. Così se la malattia mi ha rubato la possibilità di muovere gambe, braccia, di inghiottire e di respirare autonomamente, la legge allora mi tolse la possibilità di esplicare il mio ruolo di mamma e mi rubò la mia stessa casa e tutti quei ricordi che sono fondamentali per ogni essere umano.
Come un novello Prometeo, anche io fui accusata di tracotanza non per aver disubbidito agli dei, come nel caso dell’eroe eschiliano, quanto piuttosto per aver osato sfidare una persona sana e di aver messo alla prova se la fatidica frase che troneggia sulle aule dei tribunali “LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI” potesse essere valida anche per me. Noi disabili siamo come puri fantasmi inseriti, nostro malgrado, in una società dove conta più l’apparire che l’essere.

Sono la seconda figlia di Rosa de Marinis, che si vantava di essere discendente di una nobile famiglia di Cava de’Tirreni, e Giovanni D’Arienzo che era un semplice professore di lettere, nativo di Vietri. Si sposarono nel 1955 e andarono ad abitare in una vetreria di Vietri. Nacquero tre figli da quella unione.

La mia infanzia è stata bellissima. Avevamo una piccola edicola a Vietri che mio nonno Raffaele aveva comprato nel lontano 1910, intestandola alla moglie. Ricordo il nonno, era alto e magro, di poche parole, un po’ austero, gran lavoratore. Mori nel 1969 all’età di 89 anni. Non ho conosciuto mia nonna Marianna perché è venuta a mancare nel 1946 quando ancora non ero nata. Mi hanno raccontato che era di media statura, occhi neri vivissimi, molto religiosa. Era nota in paese per la sua abilità nel ricamare: con ago e fili d’oro ornava tessuti preziosi che poi venivano utilizzati durante i riti più importanti che si svolgevano nella parrocchia di S. Giovanni Battista di Vietri.
Mio padre era l’ultimo di sei figli, mi raccontava che da neonato i genitori lo mettevano in una cesta dietro al bancone mentre loro si occupavano del negozio.
Ho vissuto in una famiglia matriarcale. Mia madre era una donna molto forte, a differenza di mio padre che era un sognatore. Avevo 4 anni quando per volontà di mia madre ci trasferimmo a Cava. Era incinta del terzo figlio e decise di partorire in ospedale mentre mia sorella Mariarosaria ed io eravamo nate, come era usuale fare a quei tempi, in casa a Vietri.
Il desiderio dei miei di avere un figlio maschio si avverò. Subito ci accorgemmo che mio fratello Andrea era molto monello, si divertiva facendomi i dispetti: di nascosto prendeva le mie bambole e le strappava i capelli. Questo avveniva soprattutto quando le mie cugine Marianna e Giovanna venivano a trascorrere qualche giorno a casa nostra, probabilmente si sentiva messo da parte. Spesso toglieva il pannolino intriso di pipì e girava per casa nudo.
Non a caso i miei lo avevano soprannominato PUPAINIELLO che in gergo vuol dire piccante, forte.

Confesso che anch’io non sono stata una figlia facile: da neonata non dormivo di notte e mio padre per calmarmi mi cantava la Marcia dell’Aida. Avevo 14 anni e con i miei rigurgiti di libertà che rovesciavo addosso ai miei pur avendo la consapevolezza che non avrebbero mai potuto capirmi e l’ingenua pretesa di sperimentare la vita senza il filtro dei loro occhi. Quante volte ho urlato che volevo cadere e rialzarmi sempre da sola con un lavoro mai condiviso e con quella maledetta laurea mai portata a termine, con un marito sbagliato da loro sempre inviso. Nella mia famiglia sono stata la pecora nera. Nessuno poteva convincermi a fare una cosa che non volessi fare. Spesso hanno avuto l’azzardo di cercare di convincermi a cambiare le mie idee ma io ho mantenuto sempre le mie convinzioni.
Mio babbo, così lo chiamavamo io e i miei fratelli, è stato fonte per la mia intelligenza.
Era assessore al comune di Vietri e giudice di pace. Da lui ho ereditato l’amore per la musica classica, per la poesia e per la danza. È stato mio alleato in molte occasioni, quando ho voluto studiare danza contro il parere di mia madre e quando ho aperto la scuola di danza.
Mia madre avrebbe voluto che mi laureassi come i miei fratelli ma io ho percorso la mia strada, forte dell’appoggio di mio padre.
E’ stato sempre mio padre a sostenermi nella scelta di quella facoltà, considerata un pò da tutti come un “covo di brigatisti” solo perché il movimento dei terroristi era partito proprio dalla facoltà di Sociologia di Trento. Io andavo alla facoltà di Sociologia di Salerno.
Mio padre molto aperto alle nuove possibilità e forse incuriosito dalla materia, mi accompagnò a visitare la tanto sospirata facoltà, diventata il pomo della discordia in famiglia..

Babbo morì nel 1992. Fu molto dura accettare la sua dipartita, non riuscivo a rassegnarmi. Quando ero già ammalata scoprii un quaderno nero con i bordi rossi in cui lui aveva raccolto tutte le sue poesie. Mi accorsi che potevo farlo anch’io e così mi sarei sentita più vicina a lui.

Mi ammalai nel 1997.La vita è imprevedibile. Solo ora ho compreso che ho avuto genitori splendidi.
Mio padre è stato il mio mentore e rimarrà tale fino all’ultimo mio respiro.
Con l’aiuto di mio figlio sono rinata. Da quando è venuto a vivere da me ho ripreso in mano la mia vita. Ho ricominciato a scrivere e ad organizzare spettacoli in cui i miei amici artisti del S. Carlo, tra cui il grande ballerino étoile internazionale Giuseppe Picone, il primo ballerino Luigi Ferrone, l’étoile Corona Paone, il ballerino solista Fabio Gison, gli attori Enzo Decaro e Alessandro Preziosi, il regista Luca Guardabascio e il presentatore radiofonico Pippo Pelo mi aiutano a realizzare le mie pazze idee.
Spero di non aver tediato nessuno con questo racconto che vuole essere la prova tangibile che si può continuare a vivere nonostante la malattia.

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