Oggi provo a spiegare perché Manatthan Sunday di Richard Renaldi (Ed. Aperture – 2016) è uno dei migliori libri di fotografia letti recentemente. La prima cosa che colpisce è l’uso del bianco e nero. Oggi si vedono sempre meno pubblicazioni con foto in bianco e nero purtroppo! In questo libro tutte le foto sono in bianco e nero e questa non è scelta casuale ma addirittura una scelta obbligata per l’autore.
Manatthan Sunday, infatti, descrive il mondo dei club di New York negli anni ’90, in particolare racconta la vita notturna delle comunità gay di Manhattan in questi club. Nulla di nuovo, visto che il tema è già stato proposto da Nan Goldin, ma a colori e da Mapplethorpe con la sua spasmodica ricerca estetica, forte e predominante.
In questo volume non c’è né il colore né la ricerca estetica. Richard Renaldi “scrive” con le sue fotografie un racconto più semplice e per questo più efficace degli altri. Il nightclubbing newyorchese è raccontato attraverso una lunga serie di ritratti, di volti segnati dalla notte, mai allegri, mai compiaciuti e mai soddisfatti.
Non c’è la ricerca estetica fine a se stessa e curata nei minimi dettagli, non c’è quella voglia di urlare che si ritrova nelle immagini congelate dai flash di Goldin. In queste pagine c’è il sincero racconto di un mondo che molti non conoscono, ma è un mondo che esiste e per questo non può essere ignorato.
Grande particolarità e pregio di questo volume, ma in generale è il pregio dell’intero lavoro di Richard Renaldi, è la macchina fotografica utilizzata per gli scatti. Una macchina in legno a pellicola piana, impensabile da usare oggi. Eppure lui lo osa e lo fa. Una scelta solo apparentemente in contrasto col mondo delle discoteche e dei locali notturni raccontati in Manatthan Sunday. Un mondo allegro e disperato, vivo e mai sazio, irrequieto ed in perenne movimento descritto utilizzando un’apparecchiatura ingombrante e voluminosa, un inno alla lentezza e alla riflessione. Ma evidentemente per descrivere efficacemente quei volti andava utilizzata proprio quella macchina fotografica d’altri tempi, uno strumento che di tecnologico non ha nulla e che invita alla lentezza e alla riflessione proprio per i suoi lunghi tempi di esposizione. Una macchina che costringe la persona ritratta a guardare a lungo il fotografo e il fotografo a guardare a lungo il suo soggetto. Un reciproco scambio di sguardi e di atteggiamenti necessariamente lenti e riflessivi. Nessuno scatto è rubato, e per questo, in quegli interminabili secondi, tutto diventa più vero.
Il libro è costoso e voluminoso, ma leggerlo e possederlo sarà un piacere che si rinnoverà tutte le volte che deciderete di aprirlo per sfogliarlo.
Umberto Mancini