-di Giuseppe Esposito-
Sarà l’età? Il tempo trascorso che torna a rinfocolare una sottile nostalgia per i giorni che furono? Chissà, un fatto è certo che, sempre più frequentemente, mi tornano in mente brani del passato e mi capita ad esempio di risentire nella testa un vecchio motivo. Uno di quelli che commuovevano i miei genitori. Sarà una sorta di transfert, una immedesimazione nelle figure che sono scomparse dalla mia vita, lasciando vuoti incolmabili o sarà altro? Una nostalgia per quegli anni Cinquanta che appaiono favolosi, nel ricordo, ma che forse lo furono per davvero. Un’età dell’oro, in cui il paese reduce da decenni di dittatura prima e da una rovinosa guerra poi, trovò la volontà e la forza di risollevarsi e gli italiani tutti ebbero l’ardire di credere nel futuro, nel loro futuro, che essi preparavano con le proprie mani. Era il tempo in cui si era tornati a sognare e si credeva che quei sogni si sarebbero avverati ineluttabilmente.
Oggi sembra che la nostra prospettiva sia priva di orizzonte e del futuro, manco a parlarne. Anch’io, che in quella stagione sono cresciuto, ricordo i miei sogni d’allora e li confronto invece con lo scontento del presente. Sarà dunque per questo che la mente torna sempre più spesso a quei tempi felici. E per questo il motivo che oggi risento, come se fosse reale, è tornato a risuonarmi nella testa. E mi commuovo sebbene sia una canzone anch’essa inghiottita dall’oblio. E la voce che a quel tempo si diffondeva dalla radio si confonde con quella di mio padre che la canticchiava a fior di labbra, davanti allo specchio de bagno, mentre si radeva. E questa scenetta mi si presenta come se io fossi uno spettatore. Vedo mio padre dal basso in alto. Dalla prospettiva di un bimbetto che osserva suo padre ed ascolta quel filo di voce e le parole di una canzone, sconosciuta, strana ed affascinante:
Laggiù nell’Arizona
Terra di sogni e di chimere
Se una chitarra suona,
cantano mille capinere.
Hanno la chima bruna
Hanno la febbre in cuor.
Chi v a cercar fortuna,
lì troverà l’amor.
Parole che rievocavano in me una di quelle scene che apparivano nei giornalini di cui ero già avido lettore. Una scena western. Un uomo col cappello da cow boy, in mano una chitarra che suona contro la notte illuminata da una enorme luna piena e dal buio risponde alle note della chitarra un coro di voci femminili. Ma poi mi chiedo quale sia il senso di questo improvviso ricordo, di questo voler tornare al passato, ad una età lontana che, per quanto felice, si è , da gran tempo conclusa?
Poi come un lampo, mi si accende nella testa, quello che, ricordo avesse affermato a proposito dell’infanzia il peta austriaco Rainer Maria Rilke, agli inizi dello scorso secolo:
“L’unica patria dell’uomo è la sua infanzia”
Mi sembra allora di capire il senso di queste visioni improvvise. Nel mondo d’oggi ci sentiamo tutti come degli esiliati, prigionieri di una realtà che talvolta ci mette paura. Una realtà che oramai difficilmente riusciamo a comprendere ed in cui tutti i vecchi riferimenti sono saltati. Nel campo dell’etica, della politica, della economia ed anche della vita di ogni giorno. Per il secondo anno ci troviamo a temere per la nostra stessa vita, a causa di una incomprensibile ed, apparentemente, invincibile pandemia. Ed allora il desiderio di un’età più a misura d’uomo emerge spontanea. Del resto anche Ulisse campione della sete di conoscenza che lo spinse addirittura oltre le colonne d’Ercole, aveva dentro di sé un desiderio di tornare in patria, salvo poi abbandonare di nuovo la sua Itaca, per correre sui mari verso nuove conoscenze.
Ma per quanto si sia punti dal fascino e dalla curiosità del conoscere occorre che si abbia una patria verso cui pensare di tornare. E la patria, per noi tutti, è il tempo felice dell’infanzia. Il tempo dell’innocenza e della scoperta del mondo. Ecco quella visone di mio padre che nella mia casa di via Zara, a Napoli, divenuta un mito nella memoria è il segno di quel bisogno di ritrovare una patria, in un mondo in cui della patria sembriamo orfani.