Il racconto della domenica di Giuseppe Esposito

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Sensi di colpa – di Giuseppe Esposito-

Giorni noiosi, giorni disperati, giorni vuoti, questi che viviamo. Chiusi in casa e timorosi d’uscire. Spaventati dalle notizie che, da ogni dove, ci riversano addosso, sempre più tremende. Apocalittiche alcune, quali i roghi in strada dell’India o le migliaia di bare senza sepoltura del Brasile. Ti chiedi quale divina maledizione si sia abbattuta su un mondo che, in verità, nemmeno a te stesso piaceva.

Sugli schermi della televisione esperti, o presunti tali, discettano sulle mutazioni del virus che ha messo in crisi il globo intero e sui pericoli che la mancanza di vaccini,  favorisca mutazioni dello stesso, capaci di render vana la campagna vaccinale in atto, pur se tra mille difficoltà, anche nel nostro paese.

L’ingordigia delle case farmaceutiche è immensa. Hanno messo a punto i vaccini e ora sono lasciate libere di lucrare anche su una tragedia senza precedenti. La cecità ed ottusità, unita all’ipocrisia delle autorità mondiali quali l’OMS, ONU ed i governi del mondo che si dice civile, incapaci di imporre a quelle che sono associate sotto il nome di Big Pharma di cedere la proprietà intellettuale sui vaccini e permettere che essi siano prodotti liberamente in ogni parte del mondo.

Quando senti dire che l’India è tra i maggiori produttori di vaccini, ma che quei vaccini sono esportati all’estero, lasciando che la popolazione indiana muoia senza che si possa far nulla, allora ti rendi conto di dove il liberismo sfrenato ci abbia portato. Siamo oggi nelle medesime condizioni in cui si era all’epoca della seconda rivoluzione industriale. Ogni progresso fatto nel corso del tormentato XX secolo, sono stati annullati. Il mondo sembra impazzito ed indifferente alle ingiustizie crescenti ed io oggi mentre rifletto sulle condizioni del mondo sento dentro di me il morso di un’altra e più privata angoscia. E sento che essa nasce, forse, da una mia inadeguatezza ad affrontare la vita, da errori commessi, anche se forse in buona fede.

Osservo, non visto, mia figlia. Dopo anni di lavoro a Milano, a causa di questa nuova peste che ci affligge è rientrata a casa e da qui lavora, col sistema che, con uno dei termini anglosassoni oramai entrati stabilmente nel nostro linguaggio, è definito smart working. Passa le ore davanti al suo computer, connesso con la sua azienda e poggiato sulla scrivania della sua camera, rimasta uguale a quando era ancora una studentessa.

La guardo e mi rendo coto di come il suo carattere sia mutato lentamente nel corso del tempo. Della ragazzina allegra d’un tempo, sembra, non sia rimasta alcuna traccia. Il suo carattere si è fatto spigoloso, difficile. Il tempo passato a Milano le ha riservato, credo, solitudine e qualche delusione. Maledetto questo paese in cui i giovani per cercare un lavoro sono costretti ad andar via da casa a centinaia di chilometri. E maledetto questo tempo in cui, per la prima volta, i figli vivono una condizione peggiore di quella dei padri. Di chi la colpa? Della nostra generazione che non ha saputo contrastare la rinascita di queste miserevoli teorie economiche liberiste per le quali l’unico valore è il denaro. Ogni altra cosa è scomparsa e perfino l’uomo, l’individuo, è divenuto una merce di scambio e ridotto ad una condizione di quasi schiavitù. Mentre tutto ciò mi passa per la mente, l’occhio mi cade su una foto in cornice, posta sullo scaffale dei libri. La conosco quella foto, la scattai io stesso tanti anni fa. Risale all’estate del ’90 e ritrae mia figlia e mia moglie, a Villammare, in quella che fu l’ultima estate spensierata di vacanza.

Dal settembre di quello stesso cominciammo ad essere risucchiati un tragico vortice, in una battaglia disperata contro un male che non lasciava scampo. Esso aveva cominciato la sua tragica progressione nella carne di mia moglie ed allora l’incubo ebbe termine quando, sette anni dopo, dovemmo smettere di combattere. La battaglia era persa e ci ritrovammo soli e storditi. Nelle stanze in cui per mesi parenti ed amici erano passati per farci sentire il loro sostegno, calò il silenzio. Ed anche la vita mi sembrò vuota, priva di senso.

Poi inaspettatamente sembrò che una luce si accendesse e che mi si presentasse la possibilità di ricominciare. Mi sembrò un cenno divino, una fortuna. Un incontro ed un amore nuovo, tardivo, inatteso, ma che mi sembrò quasi un prodigio, un invito del cielo a riprendere le fila della mia vita.

Innamorarsi come mi era accaduto al tempo dei miei vent’anni. Ma oggi, forse, col senno del poi, anche quella illusione mi pare frutto del mio desiderio d’amare. Lo dico e mi sembra di essere ingiusto con me stesso e con colei che quell’amore ricambiò ed ancora oggi se ne nutre. Eppure anche da un sentimento d’amore possono discendere conseguenze inattese, imprevedibili.

Preso da quell’amore credetti nella possibilità di formare di nuovo una famiglia. Tragica illusione. Non basta mettere insieme delle persone che ami per ricreare una famiglia. Ma fui forse ottimista o cieco e causai così disagi profondi proprio alle persone che più mi erano care nella vita. E per anni non volli vedere quanto andava maturando. Avevo portato via i miei figli da quella casa in cui avevano assistito alla dolente vicenda della loro madre ed anche giudicai che cambiare anche città poteva essere un bene e permettere loro di dare un taglio netto ad un periodo così sofferto della loro ancor breve esistenza. Ma ognuna delle decisioni prese a quel tempo sembrò poi dare frutti opposti a quelli sperati.

Dicevano i latini che “Deus dementat quos perdere vult” ed io fui forse oggetto di una siffatta volontà divina. Oppure, ancora mi vien da pensare che davvero gli dei possano essere invidiosi della felicità umana. Ed in ciò devo concordare con quanto Leopardi scriveva nei suoi Pensieri:

“L’invidia (…) credevano gli antichi, quando si trovano in grandezza e prosperità, che convenisse placare negli stessi Dei, espiando con umiliazioni, con offerte e penitenze volontarie il peccato appena espiabile della felicità o dell’eccellenza.”

Ecco forse la sofferenza di oggi sconta quella breve, intensa felicità di allora. Mi tocca pagare il debito contratto con gli dei per averne goduto. E occorre che io sopporti i sensi di colpa per quello che han dovuto soffrire i miei figli per quella che sembrava una felicità che potesse esser condivisa e che non lo è stata.

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