Di Giuseppe Moesch*
Avevo 15 anni, era il 21 agosto del 1962, ed ero stato rimandato in tedesco con cinque. Avevo frequentato le scuole elementari e medie alla scuola Svizzera di Napoli e studiato tedesco dalla prima elementare, il francese dalla seconda e l’inglese dalla quarta, alle quali ho aggiunto spagnolo e portoghese e devo a quegli studi il fatto che se ancora oggi, anche se arrugginito, le parlo ancora.
Un ottuso insegnante pretendeva da me la ripetizione mnemonica delle regole grammaticali, che non studiavo ritenendole superflue vista la mia conoscenza della lingua, così decise di rimandarmi con cinque, costringendo i miei genitori a mandarmi a ripetizione da un insegnante che non capiva perché io fossi da lei.
Nel primo pomeriggio di quella giornata, chiesi alla mia maestra, che fumava una sigaretta dopo l’altra, giustificata dal fatto che beveva un caffè dopo l’altro ed era nevrotica e stressata, probabilmente per le difficili condizioni di vita, separata e con tre figli, se le fosse possibile non agitare tanto le gambe muovendo di conseguenza il tavolo su cui eravamo entrambi appoggiati.
Dal suo sguardo capii che stavamo vivendo l’esperienza delle prime scosse di terremoto che avevano colpito la Campania, in particolare la zona dell’Avellinese, i cui riflessi stavamo avvertendo in quel momento.
Decisi di rientrare a casa e, scendendo da Piazzetta San Carlo alle Mortelle e poi per i gradoni delle Rampe Brancaccio, via Filangieri e finalmente a via Domenico Morelli dove abitavo, notai una modesta reazione da parte delle persone per cui rimasi colpito dalla presenza in strada di mia madre con i miei fratelli. Il fatto era che la nostra casa di vecchia struttura molto elastica aveva risposto alle scosse ampliando gli effetti del sisma, creando grande paura negli abitanti.
Non avevamo notizie di mio padre e mia madre mi chiese di andare a vedere se fosse nella zona delle giostre in Villa Comunale dove spesso si recava dopo il lavoro a rilassarsi in un gioco di abilità che consisteva nel riuscire ad inserire dieci biglie in altrettante buche ricavate sul piano di marmo di un biliardo. I punti che otteneva di volta in volta corrispondenti al numero di biglie superiori a sei andate in buca, venivano accumulati e trasformati in premi, giocattoli, che venivano riscossi intorno Natale per i regali ai bambini.
Lo trovai, infatti, impegnato nella sua attività, del tutto ignaro di ciò che era accaduto e dell’ansia in cui aveva tenuto mia madre, ed insieme tornammo a casa, dove intanto subimmo una seconda scossa molto forte che ci costrinse di nuovo in strada. Durante la notte altre scosse meno violente fecero destare me e mia madre ,più sensibili ai movimenti della casa, lasciandomi un ricordo indelebile di emozione mista, di latente paura e di strano piacere, per essere partecipe della violenza incontrollabile della natura emozione che sempre ho riprovato ogni qual volta mi sono ritrovato in situazioni analoghe.
Poco più di un paio di settimane dopo, la televisione mandò in onda le immagini di un altro terremoto distruttivo questa volta, in Persia, come allora ancora si chiamava l’Iran prima dell’avvento di Khomeini e della teocrazia che ancora oggi affligge quel Paese.
Era il 6 settembre del 1962 quando nell’area di Buin Zara, la terra tremò a lungo e come ho detto, con grande violenza, causando la morte di oltre 12.000 persone e radendo al suolo migliaia di case. Una tragedia immane, ma che fu anche uno dei primi esempi di grande partecipazione internazionale è anche uno dei primi atti di intervento per il World Food Programme istituzione nata solo da pochi mesi.
Percepii in quella occasione di come fossimo stati fortunati nella nostra esperienza che anche se il sisma aveva distrutto interi paesi in Irpinia, aveva provocato un ridotto numero di morti rispetto a quel paese.
Le notizie che arrivavano, rispetto ai feriti e agli orfani, erano drammatiche e l’Italia come sempre generosamente contribuì ad accogliere parte di quelle persone e di quei bambini, e in particolare la televisione trasmise le immagini di un orfano ferito che non aveva mai visto il mare e che fu portato in spiaggia, dove potette godere dello stupore di vedere da montanaro quella enorme massa d’acqua che le onde agitavano.
Mi colpì molto la domanda che pronunciò quel bambino: “Ma chi lo muove?”.
Aveva con quella frase messo in dubbio un mio sentire che era connesso al mare come essere vivente, entità unica dotata di una propria vita umorale, anche se ero ben consapevole dei fenomeni fisici e atmosferici che lo condizionavano.
Avevo imparato ad amare e temere il mare. Sapevo di quanto fosse dolce, nei suoi momenti di bonaccia e insieme terribile, quando si infuriava. Avevo visto barche distrutte sbattute sugli scogli, me stesso ed amici feriti per aver troppo osato, quando le onde alte qualche metro si abbattevano nei luoghi dove abitualmente facevo il bagno ed era eccitante tuffarsi e farsi riportare sugli scogli che venivano sommersi, o quando un improvviso cambiamento del vento ti costringevano a ritornare a riva, con la barca che faticavi a governare.
Era, ed è, un amore difficile e in qualche misura travagliato, ma al quale non puoi resistere e che continui a cercare, e ti manca, come mi è successo, dopo aver lasciato Napoli per Roma, e ripresa solo quando ho iniziato a frequentare Salerno dove era la mia nuova sede universitaria, nei cui pressi avevo preso in affitto una casa.
Così decisi di andare nuovamente per mare e di acquistare una piccola barca che avevo voluto ormeggiare a Cetara, uno dei posti più belli della bellissima costiera amalfitana, che raggiungevo in auto dove potevo parcheggiare a casa di un mio collega, sfuggendo così al problema dell’accesso alla cittadina.
Arrivavo al porto armato di esche e viveri per una giornata di mare che nei giorni feriali, anche ad agosto, non era particolarmente affollato, e la goduria di Capo d’Orso, come le toccate dei piccoli pesci che nutrivo con generosità, ma con scarso successo, mi riportavano al piacere della mia infanzia, quando con mio padre andavamo davanti Marechiaro a forza di remi, ma dove le catture erano assai più significative.
A fine giornata rientravamo al porto con mia moglie per poi compiere il rituale del tardo pomeriggio consistente nella faticosa attività di consumare l’aperitivo al bar sulla piazzetta, dove incontrare gli amici stanziali o provenienti da Salerno con i quali concludere la serata a cena con un cuoppo di pesce fritto ed una buon bicchiere di vino gelato, oppure ad uno dei ristoranti ed in particolare al San Pietro dove il fantasioso Franco ci faceva deliziare con i suoi capolavori di semplice ingegneria culinaria, e meno frequentemente all’Acqua Pazza, troppo sofisticato per la mia idea di borgo marinaro.
Il problema principale di quella località era dato dal rimessaggio invernale, visto che non era possibile farlo in paese, e quindi cominciai a cercare una soluzione a Salerno dove poter tenere la barca anche d’inverno, e da dove potevo raggiungere facilmente la costiera.
Cercai tra i vari porticcioli presenti in città ed uno di essi mi piacque subito poiché presentava tutte le caratteristiche che prediligevo, ovvero il Circolo Velico Salernitano.
Il luogo centralissimo, in pratica scendevo dal treno ed ero in barca, piccolo bar e ristorante riservato ai soci, ormeggi comodi con accesso facile da terra e da mare, e ben riparato, anche se un paio di volte ho potuto vedere le conseguenze di mareggiate che avevano compromesso seriamente alcune barche, posto per l’auto e per le barche d’inverno, e assolutamente naif, ovvero, esemplare per l’assenza di vita sociale come nei circoli blasonati: era il mio circolo.
Mi presentai un pomeriggio per chiedere informazioni e subito vidi svanire le mie speranze. Mi presentarono il presidente e cofondatore del circolo che mi disse che c’erano lunghe liste d’attesa per la concessione di un posto barca, con numeri chiusi per le varie stazze, ovviamente essendo la mia una delle più piccole faceva parte del gruppo più nutrito e quindi con tempi d’attesa biblici.
Ero capitato nel bel mezzo di un aperitivo a chiusura di una assemblea dei soci e mi invitarono comunque a restare e a bere qualcosa con loro, accettai e fu così che conobbi il segretario, Gennaro Barbarito, persona subito cordiale e simpatica, che aveva assistito alla precedente conversazione con il Presidente e che cominciò a chiedermi secondo il costume meridionale e campano in particolare, a chi appartenessi, ovvero chi fossi perché capitavo lì, che barca avessi e mi ridiede subito una qualche speranza.
Mi spiegò innanzitutto che avrebbero potuto accettare la mia richiesta di iscrizione a prescindere dall’ormeggio della barca; risposi che ero lieto ma che in effetti non era quello il mio obiettivo. Mi spiegò che in fondo alcuni soci che avevano storicamente un posto non lo utilizzavano perché ormai anziani o fuori città e, quindi, si rendevano liberi per soddisfare le esigenze dei nuovi richiedenti che poi erano sempre gli stessi, che si riusciva ad accogliere ogni anno.
Il messaggio era chiaro: sei simpatico sembri una persona perbene e il circolo accoglie con piacere un socio facente parte delle istituzioni, iscriviti.
Nei giorni seguenti passai in segreteria, formalizzai la mia iscrizione, detti gli estremi della barca che fu inserita in coda ad una lista di una dozzina di nominativi nel gruppo di riferimento, e decisi di tornare a sera, da nuovo socio, a cena nel freddo salone che l’impianto di riscaldamento non riusciva a render confortevole se non a tarda sera. In compenso, ebbi modo di apprezzare la cucina di pesce, che come scoprii in seguito veniva acquistato la mattina dai pescatori che ritornavano con le loro piccole barche.
Avevo trovato qualcosa che somigliava molto al mio desiderato luogo di mare.
Spesso durante lo scorcio d’inverno che andava finendo andai ancora a cena talvolta con alcuni dei miei collaboratori, spesso incontrando il segretario, Rino, come amicalmente presi a chiamarlo, fino a quando mi comunicò che, avendo analizzate le richieste di ormeggio, sarebbe stato possibile accettare la barca, allo tesso pontile dove era ormeggiata la sua, e che potevo quindi organizzare il trasporto della stessa.
Fu l’inizio di una bella amicizia che negli anni seguenti si sarebbe rafforzata; come mi aveva fatto intendere che il diniego iniziale del Presidente era dovuto al fatto che il nucleo iniziale dei soci era fatto da amici che non amavano intrusi ed erano piuttosto chiusi verso nuovi soci che non fossero considerati accettabili.
Molto spesso d’estate, con mia moglie e mia figlia o altri amici, ci recavamo al porto e magari neanche uscivamo restando ormeggiati in banchina a prendere il sole, e facendoci portare in barca dal ristoratore qualche piatto cucinato al momento. Ricordo una pasta, fagioli e cozze da far resuscitare, o una parmigiana di melanzane che definire epic,a appare sminuente.
Lo sfottò al ritorno dalla pesca era un classico, ed era legato specialmente alla ridondante dotazione elettronica che avevo istallato sulla nuova barca che avevo acquistato ma a cui non corrispondeva una adeguata cattura, ma si sa che, forse, è proprio questa una delle componenti del piacere di quell’attività.
La vivacità dell’uomo si manifestava nelle attività collaterali rispetto alla sua vita lavorativa assai impegnativa, attraverso l’amore per un pezzo di terra che aveva e dove coltivava del vino; a Natale non mancava per gli amici un piccolo omaggio rappresentato da un barattolino di olio al peperoncino che coltivava personalmente.
Tra le varie iniziative che portò avanti e che condivisi con entusiasmo, ci fu quella che organizzò un anno, d’inverno invitando il suo amico; Giuseppe Presutto, docente all’Istituto Agrario se ricordo bene di Pontecagnano, a tenere una serie di incontri presso il Circolo, per insegnare ad alcuni dei soci, una ventina di persone che aderirono all’iniziativa, per conoscere il vino.
Non si trattava di un corso per sommelier, piuttosto una serie di chiacchierate sulle caratteristiche organolettiche e sulle tecniche di riconoscimento delle caratteristiche, oltre che a spiegare come abbinare il vino ai cibi.
Un’esperienza strepitosa: prima dovevamo compilare una scheda e descrivere le nostre impressioni sensoriali, prima visive, poi olfattive e quindi gustative, subito dopo confrontarci con la percezione dei profumi o dei cattivi odori per riconoscerli annusando alcune fialette contenenti aromi alcuni dei quali presenti nel vino che stavamo provando, a cui seguiva una discussione sui risultati ed infine veniva proposto uno dei piatti preparati dal cuoco del ristorante, per cui il nostro docente proponeva l’abbinamento.
Andammo avanti per parecchie settimane, approfondendo la conoscenza di alcuni soci del circolo in una atmosfera allegra e goliardica, migliorando le nostre conoscenze sul vino e sulle donne e gli uomini che già avevano in comune la passione del mare.
La nostra frequentazione personale terminò con la fine del mio rapporto con l’università, andando in pensione dopo due altri anni di insegnamento volontario e ritornando definitivamente a Roma, trasferendo anche la barca a Fiumicino, mantenendo tuttavia periodici contatti telefonici e sui social. Tutto ciò è purtroppo terminato a dicembre scorso quando Rino ha affrontato l’ultimo viaggio.
Era un forte nuotatore e ricordo con grande divertimento una giornata quando ancorate le barche al largo della baia di Erchie, lui decise di fare una nuotata fino alla spiaggia mentre io, avendo mal digerito qualcosa che mi aveva fatto male, contribuii ad inquinare il tratto di mare intorno al mio gozzo. Dopo un’ora circa, quando peraltro il mare aveva già ripulito tutto lo vidi sopraggiungere. Si appoggiò alla battagliola e mi disse sorridendo: “Che bagno splendido e che nuotata”. Riuscii a controllare la mia reazione istintiva di ridere al pensiero che se fosse arrivato prima, avrebbe navigato in un mare non particolarmente accogliente.Non gli ho mai raccontato dell’accaduto ed un poco oggi me ne dispiaccio; penso che ne avrebbe riso con me.
*già Professore Ordinario presso l’università degli Studi di Salerno