
-di Gennaro Saviello-
Settanta anni separano la messa in scena de La Vergine del Sole di Domenico Cimarosa, dalla Forza del Destino di Giuseppe Verdi. Entrambe le opere furono rappresentate fuori dall’Italia, a San Pietroburgo.
La prima, il 6 Novembre del 1788, nel Teatro dell’Ermitage, la seconda, il 10 Novembre 1862, in quello Imperiale. Il napoletano Cimarosa è, forse, il primo ad assegnare un ‘ruolo idiomatico’ al Clarinetto, ma solo pochi anni dopo, nel 1791, Wolfgang Amadeus Mozart scrive una delle pagine più imponenti della letteratura solistica per Clarinetto: l’Aria di Sesto, Parto ma tu ben mio, ne la Clemenza di Tito. Cento battute complessive, forse destinate a rimanere insuperate in lunghezza che Giuseppe Verdi, come pochi altri, riuscirà a scalfire in ‘monumentalità’. Sebbene non sia possibile utilizzare questi due capolavori come termini ante e post quem, entro i quali circoscrivere un ‘censimento’ completo dei ‘soli’ d’opera per Clarinetto – a causa della miriade di altri ‘interventi’ che, dalla metà del XVIII secolo, si fanno strada nelle centinaia di partiture di questo genere – è possibile considerarli ‘capisaldi’ di un modo d’intendere la scrittura per ‘solo’ di Clarinetto.
Se l’opera in musica nasce con l’intento di «imitar col canto chi parla», la strumentazione, si offrì come tecnica principale per comunicare prima gli «affetti», poi la «passione» e, quindi, i sentimenti dei personaggi che si avvicendano sulla scena, come già Aristotele l’intendeva. Hector Berlioz, infatti, negli anni in cui si apprestava a dare alle stampe il suo Grand Traitè d’Istrumentation, scrivendo un articolo sulla Gazzetta Musicale di Milano (nel n. 26 del 1842), delinea un profilo idiomatico del Clarinetto e ne riassume le caratteristiche, a distanza di circa duecento anni dalla sua ‘invenzione’ e dopo un cinquantennio di evoluzioni organologiche:
«Il carattere de suoni di mezzo spiranti una certa fierezza che rattempra una nobile dolcezza, li rende all’incontro acconci all’espressione dei sentimenti e delle idee più poetiche. La frivola gaiezza e del pari la ingenua gioia sole paiono punte non convenire a questo timbro. Il clarino è uno strumento poco acconcio all’idillio, ma si conviene meglio al carattere epico[…]. La sua voce è quella dell’amore eroico. […] acquista nel solo qual tanto di delicatezza e di misteriosa affettuosità che perde in forza e in slancio. Niente di più virginale, niente di più puro del colorito dato da certe melodie dal timbro di un clarino adoperato ne i suoni mezzani da un valente virtuoso».
Il Clarinetto nell’organico dell’orchestra d’opera, sin dalla comparsa e parallelamente alla sua evoluzione organologica (dalle metà del XVIII in poi) entra a far parte di in «sistema semiotico musicale», «narrativo», «a servizio del testo poetico». I suoi interventi solistici, in particolare, «focalizzano» l’interiorità del personaggio che spesso introducono o accompagnano; aiutano a condividerne i sentimenti, le passioni, gli stati d’animo.
Il compositore ottocentesco, più di quelli del secolo precedente, preleva dalla sua tavolozza sonora, ora i suoni del registro di chalumeau, ora quelli di clarino, stemperati a larghe pennellate, come una velatura introspettiva data nel momento cruciale dell’opera, in cui la vena romantica piega le coscienze, le travolge, fino a costituire, come scrive Carl Dahlhaus, il «fattore primario dell’opera d’arte».
Gioachino Rossini, ma soprattutto Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti, fino a Giuseppe Verdi, negli anni in cui il ‘gusto romantico’ permeò la società italiana fin sopra le scene dei teatri – con gli adattamenti da Victor Hugo, George Gordon Byron, Walter Scott da parte degli eccellenti ‘librettisti’ dell’epoca – ne impiegarono le potenzialità espressive per evocare dalle parole del libretto e dagli intrecci drammaturgici, molto spesso, i sentimenti che scatenano ogni passione: l’amore, soprattutto, ma anche il dolore.
Dall’analisi delle principali Opere in Musica, scritte tra la seconda metà del Settecento e quella dell’Ottocento è emerso un ‘censimento’ che, per le ragioni sopra esposte, non può essere enciclopedico, definitivo. E’ utile, invece, per apprezzare gli inseriti strumentali, come anche piccoli ‘camei’ d’autore, scovati nelle varie partiture e che hanno un senso precipuo nell’economia generale delle orchestrazioni e delle scene. Unità ‘minimali’, dalle tre alle otto battute, affiancano composizioni impegnative, veri monumenti musicali, firmate da Mozart, Rossini, Bellini, Donizetti, fino a Giuseppe Verdi.
Dei trenta ‘soli’ per Clarinetto schedati in venti Opere di ‘repertorio’, scritte dal 1788 al 1862, otto sono eseguiti nelle Sinfonie, tre nei Preludi; sei collocati degli atti iniziali, otto nei secondi e tre nei terzi. Nell’economia del singolo atto lo troviamo, quasi sempre, come introduzione delle scene centrali e delle Arie dei protagonisti principali: Sesto in La Clemenza di Tito di Mozart, Romeo ne I Montecchi e Capuleti di Bellini, Norma, Fernando nel Marino Faliero di Donizetti, Violetta nella Traviata di Verdi.
Non possono passare inosservati, inoltre, i ‘soli’ che caratterizzano, le Sinfonie e i Preludi. Nelle prime assistiamo ad un impiego generalmente comprimario con tutti gli altri strumenti della classe dei legni, eccezion fatta per alcune opere verdiane; nei secondi, invece, a cominciare da Donizetti, sostiene Erika Cuna – prendendo in prestito un termine dalla teoria degli atti comunicativi – ha una funzione fàtica, ovvero stabilisce una comunicazione fra chi parla e chi ascolta, il cui uso frequente «si può spiegare col fatto che, crescendo l’attenzione verso la funzionalità drammatica ed espressiva della musica teatrale, la sinfonia/ouverture viene sentita come troppo staccata ed autonoma rispetto al dramma». Il ‘ruolo’ che i ‘soli’ di Clarinetto ebbero nel teatro musicale fra Settecento e Ottocento è reso efficacemente da Lorenzo Arruga nel riportare un’intervista di Fabrizio Meloni, a proposito di quello scritto da Verdi nella Traviata (Atto II, Scena 6):
«C’è un momento in cui ti senti protagonista all’improvviso. Otto lunghe battute d’un adagio lacerante. Stai esprimendo del dolore, un poco di speranza, un grido interno di questa donna [Violetta], il palcoscenico ha la luce bassissima, e senti questa campanella, il direttore con un cenno morbidissimo ti chiede un suono e tu devi raccontare un mondo in pochi secondi».
(L’articolo è tratto da Gennaro Saviello, Il Melodramma diffuso. Scritto e suonato per clarinetto ‘solo’ nella Drammaturgia musicale da Mozart a Verdi, Edizioni Accademiche Italiane, 2021)