”Vani d’ombra” di Simone Innocenti. Voland – Collana Intrecci
Ex Libris- di Denata Ndreca- Ci sono libri e poi, ci sono i libri che fanno la differenza. Fu questo il mio primo pensiero quando finii di leggere il Bildungsroman “Vani d’ombra” di Simone Innocenti, giornalista e scrittore fiorentino (1974).
Ancora una volta, i paesi dell’autore puzzano di disperazione.“La cattiveria del paese è uguale in tutti i paesi”, una freccia questa che indicherà velocemente il lettore non solo verso la storia che narra, ma anche verso la propria contrada, quella dei ricordi cuciti sotto pelle. Un romanzo di formazione,psicologico – intimistico,eseguito con un linguaggio emozionale e con la precisione di una scrittura che sembra una chirurgia ottica tradizionale ed una microchirurgia d’avanguardia nello stesso tempo, la quale riuscirà ad incidere immediatamente la nostra retina, trascinandoci lontano e vicino.
“Sacrificarsi è tutto nella vita, imparalo alla svelta.Comportati bene: prescrizioni, doveri, imposizioni, regole, regole ferree da seguire, porte comportamentali, vita da tenere sotto controllo, io volevo solo giocare”
Michele Maestri di tredici anni voleva solo giocare. Noi volevamo solo giocare. Innocenti, incoscientemente ci obbligherà a questo: alla coniugazione del verbo “giocare” e del verbo “vedere” in tutti i tempi passati, remoti.Tempi dai quali non si scappa, non ci si salva, perché i muri del paese di Michele Maestri di anni tredici sono rivestiti di bianco scivoloso con una forma geometrica ben precisa: quella di un cono dentro il quale si deve rimanere fino alla fine, con tutti i segreti, quelli buoni e quelli sporchi.È così che impara a sopravvivere a se stesso, impara a sentire, sa parlare, sa muoversi, deve stordirsi di sciocchezze. Michele ha bisogno di piccole cose.
Simone Innocenti ci conferma che sono le piccole cose che riequilibrano col carico del niente la bilancia sbalestrata del nostro tutto.
Toccare le pagine di questo libro è come toccare un cactus. Non vedi tutte le spine, ma le senti perché la capacità di Simone è questa: riesce a trasmettere i suoi pensieri non solo con le parole, ma li trasforma in immagini che poi diventano suono e voce per chi sa ascoltare. Una voce che esige silenzio, perché il protagonista vuole essere lasciato in pace da chiunque, vuole stare con sé, per portarsi a galla dal fondo in quella donna (amante del padre e degli uomini del paese) che lo ha cacciato all’età di tredici anni, o forse lo hanno cacciato.
É proprio il rumore del silenzio che taglia ed emerge in questo romanzo, il silenzio dei divieti. Per i minori di diciotto anni le immagini di guerra al Tg vanno bene, ma quelle di sesso no, perché alla guerra ci abituano subito, al sesso no.
Silenzio che ci ricorda che le case sono fatte di muro e pietre, sono a vista, danno un’idea di solidità, ma è solo un’idea, perché a volte, dentro le mura bianche di una casa si consumano le tragedie peggiori, si nascondono le persone con cuore di pietra che le abitano. Silenzio che l’autore sa iniettare nelle vene del lettore con le sue domande senza risposta, luogo dove segue la logica senza logica, o meglio, luogo in cui ognuno segue la propria, perché in quel fondo ci siamo stati un po’ tutti ogni volta che gli altri raccontavano la verità e la nostra verità non esisteva. Quel fondo insegna che “gli occhi che sanno vedere sono come una scala del pianoforte che la puoi percorrere in bellezza solo se la bellezza la sai produrre”, fino a toccare l’ infinito, perché la scrittura di Simone Innocenti in queste pagine sa ben calcolare il punto di fuga verso il quale le linee parallele sembrano convergere centrando gli infiniti, e lui li sa vedere.
È il rumore silenzioso che assomiglia alla lava di un vulcano che dormirà nei posti più comuni, dormirà in un parcheggio, all’est di una stanza o al sud di una parette, all’ovest di una finestra dove c’è una ragazza che aspetta o al nord di una sedia, per poi portarlo di nuovo nel centro del bianco.
Un bianco, nero come quello di un pozzo profondo, profondo quanto le pagine di questo libro che ci ricorda che le donne “hanno qualcosa, hanno l’orizzonte dentro di loro”