Paolo Casadio, viaggiatore nel tempo
di Maria Gabriella Alfano
Paolo Casadio, con il romanzo “Il bambino del treno” (Piemme- 2018) è stato il vincitore della trentacinquesima edizione del Premio Città di Cava de’ Tirreni.
Il romanzo è ambientato a Fornello, una sperduta stazione ferroviaria dell’Appennino tosco-romagnolo, nel periodo compreso tra il 1935 e il 1943.
Le vicende drammatiche dell’Italia in quegli anni lambiscono marginalmente quei luoghi e i loro abitanti, fino al dicembre del 1943 quando a Fornello si ferma un treno diverso dagli altri. Il suo carico è fatto di uomini, donne, vecchi e bambini, stipati nei carri: sono gli ebrei razziati con la forza dal ghetto di Roma per essere deportati nei campi di concentramento nazisti. La linea è stata bombardata, il treno deve attendere i ripristini. Si aprono le porte e Romeo, otto anni, figlio del capostazione, conosce Flavia, una bambina della sua stessa età e se innamora. Quando il treno riprende il suo viaggio, anche Romeo, per errore, parte…
Non proseguo nel racconto per non svelare tutta la storia.
Un romanzo avvincente e commovente quello di Paolo Casadio, che è stato pubblicato anche in Argentina con il titolo “El niño del tren” e uscirà nel gennaio 2021 – in occasione della “Giornata della Memoria” – in Germania con il titolo “Der junge, der an das Glück glaubte”.
Ho conosciuto Paolo Casadio nel settembre 2018, quando è venuto a Cava de’ Tirreni per ritirare il premio assegnatogli dalla Giuria.Era arrivato da Godo, un piccolo paese vicino a Ravenna, dove vive con la sua amatissima moglie Anna, con il figlio e due cani. Mi aveva parlato della sua “doppia vita” di geometra provinciale e di scrittore.
Sarà perché avevo letto il suo libro o per un’affinità generazionale e di visione della vita, ma ho avuto la sensazione di conoscerlo da sempre, tanto che d’istinto, ci siamo da subito parlati con il “tu”.
Paolo, classe 1955, era al suo terzo romanzo. Dopo “Alan Sagrot”, pubblicato nel 2012 per la casa editrice “Il Maestrale”, scritto a quattro mani con Luca Ciarabelli, nel 2014 aveva esordito come solista con “La quarta estate” edito da Piemme, ambientato nel 1943 nel sanatorio per orfani affetti da scrofolosi di Marina di Ravenna.
-Paolo, c’è qualcosa che manca nella tua biografia che ti piacerebbe condividere con i lettori?
Vent’anni di escursioni nel nostro Appennino. Me ne sono accorto dopo, ma hanno avuto un peso nella formazione della mia scrittura: le camminate per mulattiere e sentieri, i borghi ormai abbandonati. Testimonianze di comunità che non esistono più. Era difficile per me non pensare al loro passato, al valore fondamentale che quei ruderi avevano avuto nella vita di tante persone. Lì si era vissuto, partorito, lì si era morti. Nessuna di quelle persone avrebbero immaginato le loro case cadere in rovina. Mi sarebbe piaciuto recuperarle tutte, dare loro una nuova vita. Lo faccio con la penna.
–A che punto della tua vita hai deciso di diventare scrittore?
Molto presto, ma l’ho capito molto tardi. Fin da piccolo avevo la fascinazione per i libri. Leggevo parecchio e nell’adolescenza mi sono avvicinato ai grandi giallisti come Ellery Queen e Rex Stout. Poi ho scoperto Simenon e il suo Julius Maigret. Mi veniva voglia di creare storie simili e cominciavo a scrivere, ma dopo poche pagine mi arenavo: non avevo niente da dire.
–Racconta com’è accaduto.
Intanto è trascorsa un bel po’ di vita e ho attraversato i guai e le sofferenze che prima o poi toccano tutti. Le scomparse delle persone care lasciano senza fiato e pongono domande sul senso nostro e del vivere. Ho cominciato a tenere un taccuino su cui fissavo pensieri, riflessioni, considerazioni. Anche profonde nostalgie e acuti rimpianti. Poi mi sono accorto che potevo far rivivere queste persone nelle pagine di un romanzo. Certo, con nomi cambiati e in filigrana, ma io sapevo che dietro a quel personaggio c’era mia madre, mia nonna.
–Quando ti sei reso conto di essere diventato uno scrittore?
Non so se esiste un preciso momento in cui lo si diventa. Poi mi considero più un narratore, un raccontatore che uno scrittore. C’è una differenza, piccola, ma c’è, ed è la stessa che intercorre tra spiegare e raccontare. Comunque sia, il passaggio è avvenuto ne “La quarta estate”. Avevo alle spalle racconti brevi e manoscritti nel cassetto (e vi resteranno), con i quali mi sono fatto un po’ le ossa. Con “Alan Sagrot” mi sono confrontato con un editor bravissimo che è Giancarlo Porcu, della casa editrice Il Maestrale. Fu un cimitero di correzioni – il testo era davvero zoppicante – ma una scuola eccezionale.
-Parliamo della tua giornata. Come ti organizzi per scrivere? C’è un luogo specifico in cui lo fai o puoi scrivere ovunque? Sei metodico negli orari?
Sono la persona più irrazionale che esista. Dipendo dal tempo atmosferico, dal silenzio, dal cibo. Scrivo in treno, in auto (nelle stazioni di servizio), al bar, a letto, a scrivania, in cucina, sul balcone. A mano e con il computer. Però l’orario più amato è la notte, il buio.
–In genere qual è la molla che innesca la storia?
Un particolare, oppure una curiosità. Durante le ricerche per “Alan Sagrot” mi imbattei in un trafiletto – riportato nella pagina iniziale de “La quarta estate” – dedicato a un fascista che teneva pubbliche orazioni non autorizzate. Nonostante la foga oratoria era stato espulso dal partito. Il trafiletto mi restò incollato in testa, dando il via a quel processo immaginifico di trama e personaggi che poi sono diventate pagine.
–Segui la scaletta iniziale o ti capita di cambiare la trama nel corso della scrittura?
Uno dei motivi per cui l’esperienza a quattro mani non ha funzionato è stato proprio la necessità di una scaletta condivisa. Tendevo continuamente a creare situazioni nuove, non previste. Personalmente parto con un’idea di massima, che si arricchisce man mano. Apporti arrivano dalle ricerche storiche: nuovi personaggi, curiosità che trovo interessanti. Poi, e succede davvero, i personaggi prendono vita propria e la storia si sviluppa da sé.
–I tuoi romanzi sono ambientati nel periodo fascista e quasi tutti nel territorio in cui vivi. Come mai?
Nei miei tentativi giovanili tendevo alle ambientazioni estere. Chi avrebbe mai preso in considerazione un poliziesco che si fosse svolto a Ravenna? Sbagliavo. Ogni luogo ha specificità e occorre saperle cogliere, se vuoi raccontarle. E per raccontarle, occorre conoscerle. Il periodo del ventennio nasce da una forte curiosità anche familiare, avendo avuto entrambi i nonni fascisti – uno pure marcia su Roma. Alla forte curiosità, però, sposo ironia e un senso critico ipertrofico, quasi molesto.
… un modo per contribuire a conservare la cultura e la storia di tanti luoghi poco noti del nostro Paese, di quei “piccoli borghi”, che oggi si sta cercando di sottrarre all’abbandono, e delle persone che vi abitavano…
La dimensione italiana era – oggi un po’ meno – la parrocchia. Non a caso Giovannino Guareschi è l’autore italiano più tradotto all’estero: narra di questa dimensione e lo fa con parole semplici e personaggi eccezionali perché veraci, autentici. “Fanno sangue”, come si dice. Ci si riconoscono in Argentina come in Russia. Hanno un’umanità strutturale comune, che scavalca i confini. Nel contempo le sue pagine sono uno spaccato perfetto e nostalgico di quella che è stata la nostra storia, la nostra comunità.
-Quindi il mestiere di scrivere ha anche un valore etico?
Certo. Quando la scrittura fa questo, il suo valore etico è indubbio e, insieme, valore territoriale. Ѐ la sua grandezza, e non è scontato. La trappola narcisistica è in perenne agguato.
-Mi hai parlato della tua costante attività di ricerca nelle biblioteche, negli archivi, nelle emeroteche per approfondire la storia, il dialetto, le tradizioni del territorio romagnolo in cui si svolgono tante delle vicende che racconti. Mi hai detto anche che attraverso le ricerche hai ricostruito a ritroso l’aspetto che avevano i luoghi nel passato.
Deve essere emozionante camminare nelle strade rivedendole com’erano tanto tempo fa.
Un’esperienza intensa, da viaggio nel tempo. Mi capita puntualmente, dopo un paio d’ore di immersione nelle pagine del Corriere o del Resto del Carlino di ottant’anni fa, di uscire dalla biblioteca e osservare, spaesato, le vie, le persone, le automobili: perché sto vivendo nel 1940! Un effetto che perdura, tant’è che a cena parlo con Anna del 1940, di com’era la vita allora, dei prodotti, di come ci si vestiva.
-Ti è mai capitato che le ricerche abbiamo fatto virare la narrazione rispetto all’idea inziale?
Virare, no. Modificare, sì. Perché le ricerche aggiungono, spiegano, forniscono innesti logici. Diciamo che allargano la storia iniziale, la rendono più colorita.
Dall’idea all’approntamento del manoscritto da consegnare all’editore: qual è il momento più emozionante dell’intero ciclo di scrittura?
Il parto. Ovvero il giorno in cui componi l’ultima cartella. Il figlio è nato. Da quel momento in poi potrò migliorarlo, lavorarci sopra, ma intanto ha vita propria.
-Che mi dici del rapporto con l’editor?
Che, a differenza di altri, mi ci trovo benissimo. La prima editor è la mia agente, Fiammetta. Non mi perdona nulla, e dev’essere così. Il figlio è anche un prodotto, non va dimenticato, e obbedisce a leggi chiamiamole “di mercato”. Non c’è nulla di dispregiativo in tale considerazione, ma l’applicazione di regole che rendono la lettura più avvincente, scorrevole, equilibrata. E poi l’occhio del padre tende a non vedere i difetti, mentre quello dell’agente sì.
-Al punto in cui sei, non credo abbia problemi di accreditamento, ma per i primi romanzi è stato difficile trovare l’editore?
Oggi le conseguenze del coronavirus si sentono. In Italia la vendita dei libri è crollata e le case editrici hanno ridimensionato le uscite, che devono essere “sicure”, cioè devono garantire un buon ritorno economico. Io sono un autore di nicchia e qualche problema ce l’ho. Detto questo, i miei primi lavori li proposi a case editrici locali che – l’ho scoperto poi – erano a pagamento. Siccome non sono d’accordo sul metodo, ho sempre rifiutato e i manoscritti tornavano nel cassetto. Poi, per una fortunata serie di coincidenze, sono arrivato a Piemme e con questa casa editrice ho esordito.
–Qualche consiglio a chi vuole intraprendere il tuo mestiere?
Tanta lettura, anche per vedere come e cosa (e come) scrivono i concorrenti. Tanta umiltà perché la strada per diventare il nuovo Camilleri è lunga, richiede applicazione, lavoro su se stessi, sulla propria penna, sul proprio modo di osservare, di pensare, di parlare. Tanta disponibilità ad ascoltare critiche, appunti e consigli. E fiducia in sé.
-Il momento più critico della tua vita di scrittore?
La prima presentazione. Lo shock del pubblico. Quello del microfono.
-Il momento più esaltante?
La prima presentazione, con gli annessi già detti, quand’è finita e mi hanno applaudito.
-Il romanzo a cui sei più legato?
L’ultimo.
-Qualche anticipazione sulla tua futura attività? A che cosa stai lavorando?
Un romanzo terminato, in sofferta proposta editoriale – sofferta per i motivi prima esposti. Un romanzo in stesura, ed è la seconda parte de “La quarta estate”. Ambientata a Salò – luoghi che conosco bene, avendo una moglie originaria del posto – dall’armistizio alla fine della guerra. Un romanzo, in testa da parecchio tempo, sul Rex, il favoloso e sfortunato liner italiano degli anni ’30.
–Per concludere, in una frase sola, come vedi il nostro futuro?
In questo momento, difficile. Per una mancanza di senso di comunità e un’abbondanza mai vista di egoisti. Durante l’ultimo conflitto mondiale la nostra sopravvivenza ha sviluppato la solidarietà reciproca, un fare comune. Si capì che solo aiutandosi si sarebbe sopravvissuti. Oggi questa comprensione non c’è. Prevalgono sentimenti di odio, rabbiosità. Si riaffacciano i nazionalismi. Se non si recupera la nostra dimensione umana siamo sì sulla stessa barca, ma nella nebbia e navighiamo alla cieca in un oceano popolato da iceberg, perché l’effetto serra li distacca a man bassa. Insomma, siamo sul Titanic ma non lo sappiamo.