Referendum disinvolti

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di Giuseppe Moesh*

Nel 1978 la giuria del festival di Cannes assegnò ad Ermanno Olmi la palma d’oro per il film “L’albero degli zoccoli”, ancora oggi considerato unno dei cento migliori film italiani di sempre.

Gli attori presi dalla strada recitavano in bergamasco, la lingua dei personaggi della fine dell’ottocento e gli stessi doppiarono in seguito il film in italiano, allo scopo di renderlo comprensibile senza l’uso dei sottotitoli; in effetti la pellicola era emotivamente assolutamente coinvolgente ma i dialoghi per la totalità degli spettatori erano paragonabili a quelli parlati in uzbeko o afgano.

Federico Quaranta conduce una trasmissione, Il Provinciale, che porta in giro per l’Italia, meno nota e più nascosta, gli spettatori dalla quale si ricava ancora oggi come i dialetti, anche di origine diversa dall’italiano come quelli provenienti, dall’albanese, dal greco, dal francese o dal tedesco, siano ancora vivi e solidamente conservati in quasi ogni parte del paese.
Al momento dell’unificazione la lingua veicolare era il francese; la classe dirigente del paese poteva intendersi con i colleghi di altre regioni solo attraverso quella lingua. Si pensi all’ipotetico incontra tra un contadino bergamasco ed uno calabrese del 1860 e si comprende come forse la sola lingua dei segni potesse permettere loro di dialogare come a me è successo in Turchia nella zona di Labranda, quando avendo dato un passaggio ad un uomo che affrontava una salita di cinque chilometri, che parlava solo turco, riuscii ad intessere una conversazione che mi portò a vivere una esperienza assai interessante con allevatori di api transumanti.

Fu gioco forza per il Regno di Piemonte affermare la propria autorità attraverso un centralismo assai spinto e la conseguente applicazione della forza militare per stroncare ogni tentativo di autonomia e di fughe verso le perdute identità locali-
I nostri ascendenti romani imponevano alle genti sottomesse che entravano a far parte delle province, l’uso della lingua e dei costumi, accompagnando la decisione con il favorire i matrimoni misti tra i legionari a cui venivano dati appezzamenti di terreni conquistati, e le donne locali, certi che i parenti sarebbero stati meno bellicosi nei confronti dei padri dei propri nipoti. La sola libertà che veniva concessa che faceva parte del modo di vedere di quel popolo era quella religiosa con politiche tolleranti ed inclusive nel proprio pantheon di divinità di altre credenze, sintetizzabile nella celebre frase che permise di mettere fine alla guerra dei trent’anni alla luce del “Cuius regio, eius religio”.

Ovviamente anche il Fascismo seguì l’indirizzo sabaudo, acuendo il centralismo, per il controllo di qualsivoglia movimento che potesse serpeggiare al proprio interno, e la repressione e l’uso massiccio e diffuso del confino, fu uno strumento pesantemente utilizzato, che permise ai condannati di avere contezza delle terribili condizioni di vita dei luoghi del loro destino e che ci permettono oggi di riviverle nella lettura di documenti, patrimonio della cultura mondiale come “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, mandato al confino in Basilicata, la terra dei Lucani, prima a Grassano e poi ad Aliano, dove, sue parole, scopre l’esistenza di “una diversa civiltà”.

È facile capire che i padri Costituenti nel redigere la Carta fondante della nostra Repubblica, considerata come la più bella del mondo, non aderirono ai modelli esistenti, quali quello tedesco o americano, ma proposero un modello abbastanza singolare ed unico, inserendo con gli articoli 5 e 118 le Regioni nell’ordinamento italiano.
Prima ancora che l’innovazione potesse trovare applicazione, avevamo già vissuto, attraverso la coscrizione obbligatoria, l’opportunità di mettere in contatto persone di provenienza diversa con migrazioni interne che comportavano la conoscenza di modi di vita, di alimentazione e di linguaggio differenti, e la necessità di usare la lingua italiana, a cui si aggiungeva lo screening completo delle reclute con la conseguente conoscenza dello stato di salute di tutti gli uomini di età superiore ai 18 anni.

Un altro momento di unificazione culturale è stato l’introduzione della televisione, ed in particolare della trasmissione “Non è mai troppo tardi” condotta dal mitico maestro Alberto Manzi, che offrì agli italiani l’opportunità di seguire corsi di istruzione primaria, tesi a recuperare l’assenza delle nozioni di base per poter leggere e scrivere.

Tuttavia, devono passare oltre vent’anni perché il dettato possa attuarsi anche se c’era stato un tentativo con la legge Scelba del 10 febbraio 1953, n. 62, ma si dovette attendere la legge 16 maggio 1970 n. 281, per vedere finalmente applicata la volontà dei padri costituenti, mentre solo successivamente con l’approvazione del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che si completa il percorso on la definizione e le deleghe delle competenze.
Personalmente avevo già maturato una certa diffidenza per le varie forme di decentramento proposte dalla politica, ed in particolare avevo affermato le mie perplessità nel 1978 per l’introduzione del comprensorio, in un articolo all’interno del volume, “Dalla Regione al Comprensorio” a cura di Franco Forte, nel quale evidenziavo come le motivazioni per la introduzione di questa entità intermedia provocavano incongruenze tra le varie organizzazioni per cui un cittadino poteva trovarsi a far parte ad esempio per la scuola di un certo ambito e per la sanità in un altro, con tutti i disagi correlati.

Le motivazioni alla base di quel tentativo erano esclusivamente politiche perché se si fosse riusciti ad accorpare in modo alternativo le componenti amministrative, potevano crearsi maggioranze politiche diverse favorendo partiti che altrimenti non avrebbero potuto giungere a governare.
Principale fautore di questa iniziativa era stato il PCI, che da sempre aveva tentato di raggiungere il potere con sistemi pseudo democratici quando le urne non offrivano soluzioni valide.

La saggia scelta dei costituenti di consentire ai cittadini di poter incidere sulle scelte politiche, e la convinzione che gli amministratori a livello regionale fossero meglio capaci di comprendere le necessità dei propri elettori non ha però trovato riscontro nei fatti e la conseguenza è stato la moltiplicazione dei centri di potere, e la convinzione che fosse il modo più semplice per mettere le mani sulle risorse che lo Stato devolveva a livello locale
Agli inizi degli anni ’90 ebbi modo di mettere a disposizione la mia esperienza lavorativa in qualità di vice Capo di Gabinetto, prima al neo costituito Ministero per le Aree Urbane e successivamente all’allora Ministero del Turismo e dello Spettacolo, partecipando alla formazione delle attività connesse alla formulazione di proposte di legge nelle materie di competenza di quel dicastero.

Centro motore di quell’attività era ovviamente l’Ufficio Legislativo, retto da un mio carissimo amico, all’epoca giovane Consigliere di Stato. Uomo brillante, coltissimo, arguto, preparatissimo con il quale condividevamo il piacere della lettura e della musica classica, che nella mia stanza mantenevo costantemente in sottofondo; Il mio amico spesso restava ad ascoltare quando veniva da me per discutere sui temi all’ordine del giorno.
Avevamo le stesse perplessità su come funzionassero le Regioni affidate spesso a soggetti di secondo piano o trombati alle elezioni politiche, che usavano quell’incarico come trampolino per ritornare in auge o emergere dal pantano.

Eravamo ambedue certi che l’inefficienza e i differenti comportamenti degli amministratori avrebbero avuto serie conseguenze sia per l’abnorme crescita della spesa sia per la difformità operative ammantate di ideologia che caratterizzavano le diverse realtà regionali.
Ad ogni proposta che si pensava di proporre o ad ogni legge che ci veniva proposta per il concerto, sistematicamente aggiungevamo un primo articolo, che veniva poi tolto subito dopo averlo mostrato al Ministro, che ne rideva con noi, che recitava così: “Articolo 1. È abrogato il DPR 616”. Come dicevo era uno scherzo che restava all’interno di una ristretta cerchia di amici, ma che tendeva a sottolineare la nostra avversione per un sistema che non avrebbe potuto reggere a lungo.

Consideravamo che ogni cittadino dovesse avere le stesse opportunità, e che fosse impensabile che nascere ad Asti piuttosto che a Matera, a Belluno invece che ad Enna, dovesse comportare l’erogazione di diversi livelli di servizi o addirittura minori o maggiori prestazioni o addirittura programmi scolastici diversi.
Proprio in quegli anni nasceva per volontà di Umberto Bossi la “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania”, con visione separatista e rivendicativa rispetto ai luoghi di produzione della ricchezza rifiutando le idee di redistribuzione sociale alla base della nostra società. La finalità della lega è sancita dallo Statuto e prevede la “trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato federale attraverso metodi democratici ed elettorali» e che promuove e sostiene la libertà e la sovranità dei popoli a livello europeo”.

Il brodo di cultura quindi era quello costituito da soggetti che da sempre hanno considerato il Sud del Paese con Roma ladrona in testa, come una palla al piede, che essendo aree improduttive, succhiava le risorse prodotte al Nord. Pertanto secessione ed adesione alla Svizzera o all’Austria o alla Francia a secondo della regione coinvolta, e nessuna voglia di lasciare che le risorse prodotte potessero utilizzate altrove.
Il fatto oggettivo era lo sviluppo difforme delle diverse aree del Paese, ma non si teneva conto delle condizioni di partenza a cominciare dalla depredazione postunitaria, da parte del Regno Sabaudo, della mancanza di investimenti nel periodo fascista continuata nel periodo della ricostruzione in quanto è possibile ricostruire dove c’era qualcosa ma non dove tutto era stato depauperato.

Solo l’intervento che va sotto il nome di “Cassa per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno ha permesso di rilanciare in parte quelle regioni, che oggi hanno raggiunto livelli di crescita di tutto rispetto.
Nella formulazione istitutiva la Cassa prevedeva interventi esclusivamente infrastrutturali in agricoltura. L’articolo 1 impone infatti che dovessero essere redatti piani tali da costituire:
“complessi organici di opere inerenti alla sistemazione dei bacini montani e dei relativi corsi d’acqua, alla bonifica, all’irrigazione, alla trasformazione agraria, anche in dipendenza dei programmi di riforma fondiaria, alla viabilità ordinaria non statale, agli acquedotti e fognature, agli impianti per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alle opere di interesse turistico”.

Queste parole sono state scritte nel 1950, ma sembrano estrapolate da un discorso di un Ministro o aspirante tale, non importa se di destra o di sinistra, redatto in questi giorni a fronte dei disastri per le alluvioni o per la siccità o per i dissesti idrogeologici; dopo settantaquattro anni dobbiamo constatare che le cose che la Cassa ha saputo fare sono le uniche che hanno sicuramente affrontato i problemi, ma quando la gestione del territorio è stata affidata alle competenze locali, ovvero da più di cinquant’anni, le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Il problema ovviamente non è nello strumento. Un cacciavite non è buono o cattivo, è solo uno strumento per migliorare le prestazioni umane; se usato per uccidere una persona non gli si può attribuire nessuna colpa, che invece ricade esclusivamente sull’autore del delitto.
Non sono le Regioni come istituzioni le colpevoli perché alcune, anche grazie alle anche favorevoli condizioni di partenza, sono state capaci di crescere di più e meglio e sono proprio quelle che richiedono con forza la licenza di agire in proprio.
L’incapacità, o forse la correità, dello Stato a non controllare, a lasciar fare era strettamente correlata alla ricerca di legittimazione politica: sussidi in cambio di voti. Pensioni sociali o reddito di cittadinanza poco importa, ma sono stati tutti strumenti per tenere buoni i sudditi e permettere la crescita di potentati locali di tutti i colori politici.

Si capisce allora come sia stato facile per la Lega in primis, confermare quella sua impostazione originale autonomista e secessionista e come Calderoli abbia potuto porre una pietra miliare per il progetto originario di Bossi.
La realtà odierna è divenuta assai più complessa di quella degli anni ’70, e le situazioni si sono incancrenite, nonostante la crescita economica del Paese ma l’impoverimento sociale derivante dalla debacle della scuola e dell’istruzione in generale. Non è che manchino le punte di eccellenza o centri culturali elitari, ma si è persa l’dea di una crescita culturale complessiva ed una delle cause è proprio da ricercare nella politica decentrata così come per la sanità che vede sempre più frotte di cittadini migrare verso strutture ospedaliere del nord, spesso private, piene di medici talentuosi di origine meridionale.

Lo sfascio amministrativo è conseguenza della mancanza di controllo. L’esser più prossimi ai cittadini ha come conseguenza anche la difficoltà nel dire dei no, ad effettuare rigidi controlli che comportano perdita di consenso.
La riforma approvata con la legge Calderoli presenta due vulnus, il primo il rischio di una Italia a più velocità che acuirà le differenze sociali, mentre in secondo luogo rimetterà in moto ipotesi di secessione.
Il Re del Piemonte capì chiaramente che le forze centripete delle diverse aree del Paese riunificato, non potevano essere lasciate autonome per il rischio di rottura di quell’unità così faticosamente riconquistata.

Oggi ci troviamo, mutatis mutandis, in una situazione altrettanto rischiosa e pertanto non solo dovremmo rigettare quella legge ma riaffermare con veemenza che alcune materie debbano ritornare, almeno dal punto di vista del controllo, in capo allo Stato.
La scherzosa proposta degli anni novanta di due servitori dello Stato sembra ancora tristemente attuale.
Sanità, istruzione sono temi, come la difesa, che non possono essere lasciati ad un ciarlatano di turno pena la dissoluzione non solo dello Stato ma principalmente della identità nazionale.

 

*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

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