di Giuseppe Moesch*
Dalla sua fondazione, quale che fosse il colore del Governo in carica, Israele ha affermato il principio della intoccabilità dei propri cittadini.
Reduci dall’Olocausto, fieri della propria identità religiosa che in maniera diversa è profondamente unificante, anche senza arrivare agli ultraortodossi, ha da sempre teso al potenziamento delle proprie difese interne ed esterne, applicando il principio del rispondere colpo su colpo ad ogni attacco e ad ogni provocazione.
Molte volte sono stati essi stessi a fomentare le condizioni di rivolta, ad esempio con la politica degli insediamenti di coloni in terre esterne ai propri confini, sulla base delle idee sulla legittimità della rivendicazione della propria presenza sulla terra promessa in contrapposizione alle stesse pretese dei palestinesi.
Le successive risoluzioni internazionali hanno tentato di addivenire alla constatazione dello status quo con la proposta di due Stati, ma la realtà è che le ali oltranziste dei due fronti non accettano, più o meno esplicitamente nell’intimo, questa idea di pragmatico buonsenso.
L’espansionismo della teocrazia iraniana ha contribuito in maniera assai pesante a mantenere viva la tensione, attraverso i finanziamenti e gli aiuti militari ai gruppi armati in Libano prima e nelle altre aree come ad esempio a Gaza, oltre a finanziare gruppi terroristici in ogni parte del mondo.
Per molti anni le grandi potenze si sono limitate a cercare di tenere sotto controllo la situazione attraverso l’appoggio diretto da parte degli USA ad Israele, ed indiretto di Russia e in parte della Cina a favore dell’Iran.
I lontani e disastrosi tentativi degli USA di intervenire direttamente nel paese controllato dagli Ayatollah, quando ancora fungevano da sceriffi del mondo, hanno impedito di risolvere alla base il problema e questo ha portato all’accettazione di uno stato di permanente tensione ma localizzato in un’area circoscritta.
La Guerra del Golfo e la successiva invasione dell’Iraq, hanno portato all’allargamento dell’area di tensione coinvolgendo la Siria, con l’intervento della Russia a supporto di quei paesi.
La progressiva uscita degli USA da quelle zone calde, con l’incomprensibile fuga dall’Afghanistan, ha dato fiato alla politica iraniana di continuare nella sua scelta di ampliamento dell’area di influenza religiosa islamica, fungendo da faro per tutti gli aspiranti califfi e lasciando credere che il momento del riscatto fosse a portata di mano.
La cosiddetta “Operazione alluvione Al-Aqsa”, perpetrata da Hamas il 7 ottobre del 2023, ha trovato impreparato Israele e gli oltre 1300 morti hanno dato a Netanyahu l’occasione per applicare il principio della reazione per riportare a casa gli oltre 200 ostaggi e tentare di smantellare una volta per tutte la struttura militare di Hamas.
I quasi quarantamila morti stimati ad oggi nella striscia di Gaza, ed il tentativo di distruggere la struttura militare di Hamas che ha usato tra mille e milletrecento tunnel per una lunghezza stimata di oltre 500 chilometri per fare entrare armi e strutture militari nel territorio, sono stati la conseguenza; le strutture militari nascoste nelle scuole, nelle moschee, negli ospedali e perfino nelle zone di competenza ONU, danno un’idea dello sforzo tecnico economico realizzato dai terroristi con i finanziamenti dei paesi arabi ed il dirottamento degli aiuti umanitari inviati dall’Occidente.
L’eliminazione fisica di alcuni elementi di spicco dell’organizzazione prima in Libano, con una flebile reazione dell’Iran e successivamente a Teheran, nella stessa capitale di quello Stato, hanno dato la prova inequivocabile della determinazione di Israele di portare a termine la bonifica dai terroristi.
Mentre dopo la prima reazione all’uccisione di Wissam Hassan Al Tawil, capo militare ucciso in Libano, è stata la volta Ismail Haniyeh, capo politico che partecipava a Teheran all’insediamento del nuovo Parlamento.
Il governo iraniano ha subito un duro colpo che ha messo in luce tutta la debolezza e la permeabilità del proprio sistema di sicurezza, ed ha promesso una durissima risposta nei confronti di Israele.
Dal 31 luglio sono trascorsi quindici giorni ed ancora non ci sono novità della risposta, se non nelle notizie provenienti dall’Intelligence americana che fa sapere che dovrebbe esser imminente in corrispondenza con l’anniversario della distruzione del Tempio di Gerusalemme, ricorrenza molto sentita dalla popolazione israeliana.
Nel frattempo tra alti e bassi vanno avanti le trattative per un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Ed ecco che Teheran afferma che rinuncerebbe alla risposta violenta nei confronti di Israele se si arrivasse alla pace.
Appare chiaro come Teheran sia consapevole che l’ammonimento di Israele, in caso di attacco, colpirebbe direttamente lo Stato Teocratico, e come sia consapevole della serietà della minaccia.
L’Iran ha constatato sul campo la debolezza della propria condizione, ma ha altrettanto chiara la propria situazione interna, con una opposizione sempre più esplicita, con focolai di rivolta latenti ma visibili, con i giovani stanchi di subire una pesante limitazione dei propri diritti, che hanno portato nelle ultime elezioni alla vittoria di un “moderato” alla guida del governo; gli Ayatollah sono consapevoli che un attacco sul proprio territorio sarebbe come accendere una miccia in una polveriera.
Non potevano non reagire che con proclami altisonanti, ma sapevano che reagire sarebbe stato un suicidio politico.
Da qui la scelta di proporre una soluzione pacifica per congelare la situazione.
Il problema è che nonostante il forte potere nei confronti di Hamas e degli Hezbollah, e nonostante oggi a guidare i primi c’è un leader meno carismatico, non credo siano in grado di imporre una pace che quelli non vogliono.
Se dovessero attaccare allora potrebbe esserci una svolta dolorosa, per quel Paese e forse un ritorno a forme di democrazia oggi insospettabili.
*già Professore Ordinario presso la Facoltà degli Studi di Salerno