di Giuseppe Moesch*
Non credo che nel codice penale italiano vi sia un reato punibile per l’azione dell’imprenditore agricolo della campagna di Latina che ha scaricato il corpo di un bracciante indiano depezzato e la di lui moglie davanti casa degli stessi, avendo però cura di consegnarlo unitamente al braccio tranciato. Il legislatore non è mai stato capace di concepire un reato così efferato.
Il figlio del titolare dell’azienda ha caricato lo sventurato su un camioncino ed invece di agire come avrebbe fatto la più parte di noi, ovvero trasportarlo al più vicino ospedale, ha riflettuto su quale dovesse essere la strategia migliore per affrontare quello che il padre avrebbe definito in seguito una leggerezza attribuibile al bracciante; ha considerato che essendo il lavoratore irregolare sarebbe stato un problema dover affrontare i fastidiosi interventi delle forze dell’ordine, che oltre a imporgli la regolarizzazione dei lavoratori che fossero stati presenti, avrebbero bloccata la raccolta, con i logici e conseguenti danni economici.
Sono molteplici gli spunti di riflessione che la notizia offre: di natura umana in primis, ma di carattere sociologico ed economico sottesi al comportamento della famiglia degli imprenditori e della comunità sottesa.
Sono certo che se andassimo a cercare nella vita privata di quella famiglia, ci troveremmo in un contesto tradizionale dove i valori cristiani sono ben radicati: battesimi, cresime, matrimoni e funerali svolti con la ritualità tipica delle nostre zone interne, con partecipazione alle feste della Pasqua, del Natale, alle processioni per il Santo Patrono a cui si interviene anche con contributi in danaro, specialmente quando si è esponente abbastanza agiato della comunità.
L’immagine che bisogna dare di sé è quella della famiglia timorata di Dio, che rispetta i comandamenti, che pensa sia giusto non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso; come mai allora si può accettare un comportamento così disumano e distante da quei valori?
Il problema probabilmente è che quei braccianti non sono considerati altri come noi, sono indiani, bangladesi, africani, specie inferiori come animali da sfruttare. Non vi è empatia verso di loro ma nel migliore dei casi forme paternalistiche o di cura, esseri inferiori anche rispetto agli animali che hanno un valore economico patrimoniale rientranti nell’asse dei beni, animali che siamo costretti ad utilizzare perché ci permettono di potere esser sul mercato a prezzi competitivi in presenza di un sistema distributivo, assai spesso controllato da strutture mafiose che erodono i margini di profitto.
Sistemi produttivi arretrati peggiorano la situazione mentre la presenza del caporalato peggiora la condizione dei lavoratori, in assenza di controllo da parte dello Stato che non riesce a presidiare il territorio, quando non si verifichino addirittura condizioni di collusione o di indifferenza, essendo il fenomeno ben noto in quasi tutte le regione del mezzogiorno e non solo.
Da un punto di vista più generale il fenomeno è strettamente legato all’immigrazione clandestina; la stragrande maggioranza di loro appartiene alla categoria dei cosiddetti migranti economici e non politici, per i quali ultimi è assai più facile l’accoglienza umanitaria.
I gruppi che vanno ad ingrossare le fila dei disperati assoldati per i lavori nei campi, tende ad emigrare per cercare fortuna, come tantissimi italiani fecero negli anni di fine ottocento e buona parte del novecento, trattati anche loro come bestie, in paesi civili quali Svizzera, Germania, Belgio, Stati Uniti e Sud America e Australia.
Perfino nel Nord Italia si registrarono violenti fenomeni razzisti, si ricordino i cartelli: “Non si fitta a meridionali” per parlare dei più bonari.
Comprendiamo allora che il problema non è ascrivibile solo all’ignobile comportamento che ha dato lo spunto a questa riflessione, ma risulta assai più complesso e riguarda l’intera politica seguita negli anni dai vari governi che si sono alternati.
Il fenomeno migratorio è la conseguenza delle disuguaglianze economiche e sociali a scala mondiale, alle guerre ed alla instabilità di molti paesi ed alla crescita demografica nei paesi emergenti che diviene campo di attenzione per il reclutamento e lo sfruttamento di manovalanza a basso costo da parte delle organizzazioni criminali. Da un lato si è lasciato correre preferendo ignorare di fatto il fenomeno considerato che era localizzato solo in parti del Paese, e dall’altro si è accettato come contropartita del consenso politico veicolato da quelle stesse organizzazioni.
Che il fenomeno fosse noto e che in particolare interessasse Puglia, Sicilia, Calabria, Campania e parte del basso Lazio lo si ricava facilmente dai titoli dei giornali e dalla televisione, ma allora perché non vi è stata una forte reazione da parte dello Stato in tutte le sue articolazioni?
Prefetti, Questori, Forze dell’ordine, Magistrati si sono dati da fare per affrontare in tempi rapidissimi il caso Caivano, ripristinando in sei mesi una parvenza d’ordine, anche se i problemi sono sicuramente come un incendio lasciato a covare sotto la cenere. Tuttavia è stata sufficiente l’iniziativa di un prete per attivare la politica che ha voluto dare un segno di discontinuità rispetto al passato ed alla gestione locale. Il reale problema è la contiguità degli interessi di alcuni che fanno parte delle strutture di potere, che non hanno alcuna intenzione di cambiare le cose.
Il differenziale di prezzo per i prodotti della terra tra quanto pagato sul campo ed i prezzi al banco rende impossibile la sopravvivenza per i produttori, che in una agricoltura non industrializzata a differenza di quanto avviene ad esempio nel Centro Nord del paese, è costretta a comprimere i costi intervenendo prevalentemente sul costo del lavoro.
Possiamo sperare che come per l’intervento del prete di Caivano, la morte di un uomo indiano sia in grado di smuovere ancora la politica e non certamente l’ipocrita opinione pubblica, che nel giro di qualche giorno avrà dimenticato l’episodio, con la stessa indifferenza che ha caratterizzato i comandanti delle navi che sono passati nei pressi del veliero affondato nel mar Ionio e che non hanno prestato soccorso.
Mi auguro che sulla spinta di quanto fatto a Caivano si abbia il coraggio di accettare che il buonismo, la tolleranza, l’ideologica politica dell’accoglienza praticata in questi anni possa sostituirsi alla presa d’atto che il Paese non può più reggere queste situazioni.
Così come si è fatto da Falcone in poi spero sia possibile intervenire sulla delinquenza e le mafie colpendo nel punto per loro più sensibile, ovvero sugli interessi economico finanziari.
Valutiamo quindi la proposta di dare ai Prefetti la possibilità di confiscare le imprese dove vengono sfruttati quei poveri infelici ed affidare agli stessi la conduzione di quelle aziende.
*già Professore Ordinario presso l’ Università degli Studi di Salerno
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