di Giuseppe Moesch*
Anche se molti anni sono trascorsi, alcuni ricordi d’infanzia sono ancora vivi nella mia mente e di tanto in tanto riaffiorano con piacere e talvolta, più raramente, con un qualche dispiacere. Tra questi ultimi devo annoverare una locuzione che mia nonna materna, vivevamo con entrambi i nonni, mi ripeteva spesso.
I genitori di mia madre, potrei dire eufemisticamente che non erano particolarmente alti, con una differenza d’età di dieci anni, e che a me sembravano particolarmente vecchi. Lui ne aveva poco più di una settantina ed aveva due grossissimi baffi risorgimentali ancora scuri ed i capelli tagliati cortissimi, mentre lei era sempre vestita di scuro, spesso di nero, costume che mantenevano le donne dell’epoca dopo il primo evento luttuoso della loro esistenza, spesso in coincidenza della morte del primo genitore. Aveva dei capelli brizzolati lunghissimi che raccoglieva prima in una treccia spessa e compatte e poi acconciava come un cercine in alto sul capo tenuti fermi con delle forcine di tartaruga.
Amavo gli animali, anche perché avevo sempre avuto tra i piedi Papele, un fox terrier appartenuto per qualche anno a mio zio Antonio, che ce lo lasciò perché non voleva più intorno a sé il simbolo più forte, oltre al figlio, di una famiglia che per lui non esisteva più dopo la morte della moglie.
Avevamo in casa degli uccelli, canarini e pappagallini, che talvolta scappavano mentre d’estate sui balconi apparivano dal nulla le lucertole, e i passerotti, che venivano richiamati dai residui che i loro colleghi in gabbia lasciavano cadere.
Come credo quasi tutti i bambini desideravo catturare quegli animaletti selvatici per tenerli sempre con me, ed i miei sforzi erano assolutamente vani. Mi rivolgevo alla persona più esperta della casa, a mia nonna quindi, per chiedere aiuto nell’impresa impossibile e lei con dolcezza, e come capii in seguito con una certa bonaria ironia, una frase che credo tutti abbiano sentito in vita loro ovvero: ”Mettigli il sale sulla coda”.
Ovviamente tutti i tentativi fatti, procurandomi ovviamente prima qualche grano di sale, finivano nel nulla. Mi rimaneva la sconfitta, che non potevo prevedere essendo arrivato il suggerimento da così in alto, ovvero dalla sapienza di mia nonna, ma la certezza che prima o poi sarei riuscito nell’impresa.
Il detto è diffuso nel mondo ma certamente in Italia e nel Sud in particolare, e rappresenta una sorta di palliativo per l’impotenza infantile e non solo, quando alcune imprese appaiono impossibili, o forse quando non si vuol affrontare alla radice il problema che abbiamo dinanzi.
Mi è venuta in mente questa locuzione quando ho sentito che il Parlamento ha in corso di discussione una norma per affrontare il problema dei cosiddetti femminicidi, imponendo alla magistratura una veloce presa di posizione di fronte alle richieste di intervento da parte di donne che si sentissero minacciate.
Se entro tre giorni da quando il magistrato incaricato delle indagini, non dovesse intervenire, il capo può avocare a sé il procedimento per agire velocemente.
Appare subito a chiunque quanto lodevole sia l’iniziativa; quindi non solo le apprezzabili iniziative che fino ad oggi le forze di sinistra hanno attivato, fiaccolate, cortei, targhe, panchine e scarpe rosse, ma anche un intervento sulla velocizzazione delle procedure.
Allora ho pensato che essendo valida l’iniziativa sarebbe forse il caso di applicarla ovunque ed erga omnes ed in particolare nel settore della sanità: basta file in accettazione ai “pronto soccorso”.
Garantiamo a tutti che entro tre giorni saranno affrontati i casi più urgenti, come ad esempio un infarto in corso, e se non sarà così sarà avocato al direttore sanitario il compito di affrontare il problema.
Probabilmente con questa procedura il risultato sarà quasi sempre superato dalla morte del paziente, così come oggi avviene per le denunce inascoltate delle vittime annunciate.
Sale sulla coda dei violenti e coscienza tranquilla degli astuti legislatori.
*già Professore ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno