lI telefonino di fine agosto

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di Giuseppe Moesch*

Non ricordo bene quanti anni potessi avere quando mia madre iniziò a farmi memorizzare i miei dati anagrafici, l’indirizzo di casa e due numeri telefonici; il primo 61076 era quello di casa, ed il secondo 23215 quello dell’ufficio di mio padre.
Alla base di quella decisione che mi permette ancora oggi di ricordare quei numeri, c’era il timore che mi potessi perdere per strada, ovviamente non uscivo mai da solo, ma anche il terrore che mi si potesse rapire, come era apparso in alcune notizie di cronaca nera, che indicavano come colpevoli sempre gli zingari che avrebbero usato i piccoli per chiedere l’elemosina, forme iniziali di razzismo e di rifiuto degli estranei alla nostra cultura.
Cinque numeri con un potenziale di centomila abbonati, ma evidentemente assai inferiore era la dimensione delle utenze, in quanto pochi potevano permetterselo, comprese le utenze commerciali

Dovetti arrivare all’età di otto, nove anni per essere autorizzato a rispondere alle rare chiamate, quasi sempre di parenti o amici, e solo andando alle medie cominciai ad usarlo sporadicamente, per colloquiare con qualche compagno di scuola, per chiedere qualche informazione sui compiti, ovviamente con molta parsimonia, perché mi si ricordava sempre che il telefono costava.
Dai dodici anni in poi ci sentivamo per incontrarci a casa di qualcuno per andare a ballare, o per concordare qualche uscita magari per andare al cinema, in particolare al cinema Amedeo, che definivamo un “pidocchietto” per il suo basso costo, dove si proiettavano film di quarta o quinta visione, cioè pellicole che erano state già proiettate molti mesi prima in sale man mano meno prestigiose, e che, ormai logore, si spezzavano continuamente; il macchinista, interrompendo la proiezione, accendendo le luci in sala, riattaccava alla bene e meglio il nastro, riprendendo dopo qualche tempo, saltando spesso intere scene.

Passarono ancora altri anni e si dovette procedere al cambiamento della numerazione, talvolta aggiungendo una cifra al vecchio numero, per la enorme crescita delle utenze, connesse con il cosiddetto boom economico.
Non nascondo che la cosa mi dispiacque, perché ero affezionate a quei numeri che sentivo parte di me come il mio nome o l’indirizzo di casa, e dopo qualche anno ancora si passò all’introduzione dei prefissi che permisero a chiunque di chiamare utenti di altre città senza dover passare per le centraliniste, ché normalmente erano loro che svolgevano quel lavoro.

L’evoluzione tecnologica permise di vedere quasi in contemporanea l’arrivo di telefoni fissi in auto e subito dopo i primi cellulari già disponibili negli USA, in Svezia dove era presente la più importante azienda produttrice di quegli apparati, e in altri paesi europei.

In Italia furono introdotti in coincidenza dei Mondiali di Calcio nel 1990 e io fu uno dei seimila privilegiati a possederne uno; ero al Ministero del Turismo e dello Spettacolo come stretto collaboratore del Ministro, al quale furono offerti dal CONI e dalla unica Società Telefonica all’epoca esistente, due apparecchi appena immessi sul mercato. Ero l’unico “altro” rispetto al resto dei collaboratori, sia  perché esterno al ministero e si sarebbe scatenata la guerra se l’avesse regalato ad uno dei due Direttori Generali, o al Capo di Gabinetto, sia perché di diversa collocazione politica e quindi non avrei dovuto suscitare irritazioni all’interno del suo partito.
Quando me lo diede mi disse semplicemente con un sorriso “Così posso rintracciarti più facilmente”.

Ovviamente dovetti attivare la linea a mie spese, oltre al fatto che mi vergognavo terribilmente perché quell’oggetto che definivamo “il mattone” per la dimensione ed il peso, non poteva stare in tasca e per prendere la linea doveva essere bene in vista suscitando i sentimenti più disparati in quelli che lo notavano, in special modo a ristorante o in qualche riunione o convegno, quando squillava all’arrivo di una chiamata.

Era uno status symbol costosissimo ed elitario e di conseguenza i notabili del partito del Ministro, ma in genere tutti i maggiorenti dell’establishment, che se anche potevano permetterselo dal punto di vista finanziario (se non ricordo male costava più di quattro milioni e mezzo di lire dell’epoca), non ne avevano la possibilità perché come detto ne furono resi disponibili solo circa seimila.

Non intendo descrivere l’evoluzione sempre più veloce degli apparati, sempre più piccoli e sempre più leggeri, che oggi sono diventati a tutti gli effetti dei mini computer che permettono di ordinare cibo o gestire il proprio conto corrente, di effettuare pagamenti al volo senza dover usare la propria carta di credito, ovvero ordinare praticamente qualsiasi oggetto on line con prezzi inferiori a quelli presenti nei negozi in città, non vincolati dal computer di casa.
La diffusione è stata capillare, sia perché i prezzi di vendita si sono abbassati drasticamente, anche se i modelli più sofisticati che vengono proposti con cadenza più o meno semestrale, raggiungono cifre intorno ai duemila euro, che è più o meno l’equivalente di quei primi apparati espressi in lire, sia perché la sola idea di non possedere l’oggetto ti pone fuori.

Fuori dal consorzio sociale, fuori dal giro di amicizie, fuori dal mondo del lavoro, fuori dalle comunicazioni istituzionali (si pensi agli eventuali allarmi diramati per calamità naturali o altri eventi pericolosi), perché tutti danno per scontato che ognuno ne possegga almeno uno.

La maggior parte dei bambini già dai primissimi anni di vita, giocano con applicazioni presenti sui telefonini di mamma e papà, apparati diventati moderni sostituti della TV, davanti alla quale venivano parcheggiati in precedenza, e già dall’età di cinque o sei anni hanno il proprio cellulare, sul quale viaggiano tutti i social che sono stati l’elemento trainante della diffusione dello strumento.

In una società assai povera di relazioni interpersonali, il telefonino è diventato il sostituto perfetto, dell’amico di penna, come di quello in carne e ossa che ci rendeva inseparabili, ed al quale confessavamo anche i nostri segreti pensieri, le nostre emozioni, le nostre paure, i nostri desideri, le nostre speranze, ma anche sostituto della piazza del paese o del mercato, dove nel cicaleccio generale si svolgeva il rito del pettegolezzo su tutto e tutti; quello che è avvenuto con i social è stata la fusione tra quelle componenti.

L’apparente anonimato dello strumento ha liberato l’animo umano dando la stura ad una sorta di vomitatoio nel quale riversare ogni pensiero, ogni emozione, ogni desiderio ed ogni più oscura parte di noi stessi
L’ossessiva riproposizione della propria immagine più o meno ritoccata, in esibizione come star del cinema o delle pagine patinate di una rivista, senza distinzione di sesso, e nelle pose più varie da postare come in un catalogo di vendite per corrispondenza, sono un dovere assoluto per sfidarsi e trovare followers e ricevere likes.

Andare a mangiare in un pub, in pizzeria o al ristorante ed immortalare il piatto davanti a noi che daranno a tutto il mondo che ci segue, le opportune informazioni del nostro stato di agiatezza lasciando che nel frattempo quei piatti si freddino, peggiorandone il gusto, o ancora immortalare la nostra visita a monumenti famosi per far sapere che noi c’eravamo, ignorando spesso cosa essi rappresentino, solo per far sapere a tutti che con quello scatto o quel filmato che anche noi abbiamo fatto parte del flusso, dello stream obbligatorio, una sorta di patente che ci rende appartenente a quel set che tutto è fuorché jet.
E poi il terrore della batteria scarica.

Christophe Le Friant in arte Bob Sinclair, disc jockey francese tra i più noti al mondo, dopo un concerto tenuto a Mykonos alcuni giorni orsono, ha dichiarato di essere depresso di fronte al fatto che si è trovato di fronte ad un pubblico, pagante, che invece di ballare, e quindi dare un senso alla presenza della star internazionale, il cui compito è proprio quello di far ballare la gente, si è trovato di fronte ad un muro di soggetti chini sui propri cellulari a filmare ciò che stava accadendo.
Alcune riflessioni interessanti si possono ricavare da quello sfogo.
• In primo luogo, l’attivatore di divertimento si accorge di non essere più in grado di condizionare i suoi cosiddetti fans, trascinandoli in pista, ma scopre quello che abbiamo detto sopra, ovvero che il motivo per cui ci si reca a quei tipi di eventi non è la partecipazione, bensì il far sapere al mondo di esserci stato, dimostrabile attraverso il proprio video che si era proprio lì.
• La seconda riflessione è relativa agli spettatori che sono dei giovani in vacanza su una isola Greca nota per essere uno dei centri del Mediterraneo destinazione privilegiata per chi sceglie una località nota per il divertimento ad ogni costo, per la trasgressione, la promiscuità ed in molti casi per lo sballo, ma che di fronte ad uno degli eventi clou della stagione, rinunciano a godere di quella situazione, preferiscono filmarlo, per metterlo sui social, sapendo che quasi sicuramente non rivedranno più quel filmato che sarà valutato solo di sfuggita dai propri amici. Coerentemente con la religione di base del mondo cattolico, si tratta del piacere differito che dopo una vita esemplare si potrà godere post mortem.
• L’ultima considerazione è che di fatto si tenderà ad ostentare la propria presenza come protagonista di un evento o di qualcosa che non si è mai vissuto.
La povertà intellettuale e la solitudine sono alla base di questi comportamenti, così come i valori espressi dagli influencer e dalla pubblicità, che indicano la strada da seguire, sono alla base del disastro che stiamo vivendo.

Già nelle scuole ed in alcune manifestazioni o eventi, i cellulari sono requisiti o le pareti schermate; vedere in un luogo di ritrovo, una spiaggia, una panchina, un ristorante un gruppo di giovani che invece di chiacchierare, litigare, amoreggiare, resta in silenzio, salvo qualche sporadico commento, è deprimente.
Ancora più lascia stupiti, che questo comportamento lo si veda sempre più spesso negli adulti, il che mi riporta ai tempi dei film sull’incomunicabilità, offertici quasi cinquant’anni orsono, da Antonioni, Bergman, ed altri, che ci fecero riflettere su quei temi ma che non sentiamo ancora completamente nostri perché noi, carichi di gioia di vivere il presente con altri come noi, e spinti dalle stesse passioni, siamo attori e non figurine di contorno.

 

*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

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