
-di Pierre De Filippo-
La morte, pacifica e biologicamente accettabile, del Principe Filippo ci ha fatto riscoprire la nostalgia per il passato e per i grandi casati aristocratici, per le grandi storie. Quella inglese è stata magistralmente raccontata da The Crown, La Corona, la serie Netflix che ripercorre le tappe della lunghissima epopea di Elisabetta II.
Ma, visto che il passato non è mai passato e che viviamo di corsi e ricorsi storici, anche ciò che appare risolto e definitivamente archiviato può tornare alla luce, può farsi risentire dopo anni di quiescenza.
È il caso dell’Irlanda o, per meglio dire, delle “Irlande”: la cattolica e repubblicana e verde e ancora facente parte dell’UE Irlanda, e l’Ulster, l’Irlanda del Nord, protestante, monarchica, inglesizzata e brexizzata. Due identità così forti e così controverse all’interno della stessa isola, dello stesso pezzettino di terra, da rendere la loro convivenza molto ostica, quasi impossibile.
A 100 anni esatti dalla divisione delle contee cattoliche da quelle protestanti – evidenziando come, a distanza di quattrocento anni dalla Riforma, lo scontro religioso fosse ancora così marcato – il futuro dell’isola pare essere tornato in discussione. E tutto ciò, a causa della Brexit.
Andiamo per gradi: anni frenetici quelli che hanno seguito il referendum del 2016, col quale la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’UE; frenetici perché non è semplice fare un passo indietro così radicale dopo oltre quarant’anni di legislazione, commerciale ma non solo, comune.
Si è giunti, proprio al fotofinish, ad un accordo tra la Commissione europea ed il Primo Ministro Johnson che ha accontentato le parti ma che ha scontentato profondamente l’Irlanda.
Facciamo un passo indietro per meglio contestualizzare gli eventi: per circa trent’anni – dalla fine degli anni ’60 ai famosi accordi del Venerdì Santo del 1998 – gli “opposti estremismi”, come tanto ci piace chiamarli in Italia, si sono dati battaglia: i repubblicani irlandesi, ed il loro braccio armato, l’IRA, contro gli unionisti nordirlandesi. I primi a rivendicare la necessaria unità dell’isola e i secondi ad insistere sul loro sentirsi britannici, nonché protestanti e, soprattutto, civilmente superiori.
Tra le circa 3.500 vittime di un terrorismo più profondo e più crudo di quello italiano, tedesco o basco, anche Lord Mountbatten, zio di Filippo e protettore dell’erede al trono Carlo.
Gli accordi del Venerdì Santo – un capolavoro politico di Tony Blair e della sua ministra Mo Mowlan – si erano imperniati su un punto essenziale: la presenza di una frontiera tra i due Paesi e, al contempo, la sua invisibilità; dunque, non una frontiera fisica, palese, evidente.
L’accordo post-Brexit, proprio per evitare di creare un confine doganale visibile, ha, se vogliamo, peggiorato le cose: ha lasciato l’Ulster all’interno dell’area doganale europea e ha individuato il confine tra Unione Europea e Regno Unito nel mare d’Irlanda.
Cioè? Le merci non verranno controllate tra Ulster e Irlanda, per evitare di creare un confine fisico, ma tra Gran Bretagna e Irlanda, facendo gridare i lealisti nordirlandesi tutta quella rabbia rancorosa che prova chi viene abbandonato.
Per la prima volta da anni, nelle ultime due settimane gli scontri sono ripresi ed il bilancio è di 19 feriti e 74 episodi di disordine, tant’è che la polizia ha dovuto utilizzare gli idranti per disperdere i manifestanti nordirlandesi.
“L’Ulster è britannico, no a un confine interno nel Regno Unito” recita un manifesto sulle strade di Belfast.
D’altro canto, la situazione in Irlanda – la verde e cattolica – non è per nulla tranquilla: le ultime elezioni politiche hanno visto la clamorosa affermazione di Sinn Féin, partito ultranazionalista e, per anni, versione parlamentare di quell’IRA responsabile del famoso Bloody Sunday e di altri attentati analoghi.
L’attuale leader del partito, Mary Lou McDonald, ci crede davvero: “avremo un referendum entro cinque anni e in questo decennio otterremo l’Irlanda unita. Il nostro è il viaggio verso la libertà di una nazione colonizzata: siamo l’esempio di come un conflitto intrattabile può essere risolto e solo l’unificazione sarà la prova che siamo in pace con noi stessi”.
Una dichiarazione d’intenti bella forte.
L’Ulster, però, nonostante il tradimento subito e nonostante il crescente peso politico di Sinn Féin anche dalle sue parti, non ci pensa proprio ad abbandonare il Regno Unito e tutto ciò che, politicamente ed economicamente, questo comporta.
Attenzione: se è vero che i corsi e i ricorsi storici esistono davvero, non ci resta che piangere.