di Giuseppe Moesch*
Trovarsi in un certo luogo, in un certo momento è quasi sempre frutto del caso; sapere se quel posto e quel momento sia quello giusto lo si scopre solo col tempo.
Ho insegnato materie comprese nel raggruppamento che va sotto il nome di Economia Applicata, e quindi materie come Economia dei Trasporti, Economia industriale, Pianificazione e Economia del Turismo sono stati il mio bagaglio culturale che mi ha permesso di vivere interessanti esperienze professionali.
Avevo maturato alcune esperienze professionali interessanti: ero stato esperto economico della Presidenza del Consiglio nel periodo 1981-82, e a livello internazionale, con studi per il Governo Nigeriano, in Argentina lavorando alla ristrutturazione del sistema di trasporto delle linee suburbane di Buenos Aires, ed alla Privatizzazione della ferrovia Rosario Baja Blanca, allo studio del Progetto Transfrontaliero Italo-Greco, ero stato come esperi membro per il Piano Generale italiano del 1984-86, e con un consorzio italiano che progettava linee metropolitane.
Quando nel 1987 fu creato il Ministero per le Aree Urbane, ne fu affidata la guida a Carlo Tognoli, che era stato uno dei più amati e stimati sindaci italiani, avendo guidato il comune per oltre dieci anni come più giovane sindaco.
Al momento del suo insediamento il Ministro decise di costituire una Commissioni di esperti di diverse aree culturali e diverse estrazioni politica, per raccogliere le idee provenienti dal fermento presente nel Paese in quel tempo, e fu così che mi giunse la richiesta di sapere se fossi interessato e dopo la mia risposta affermativa, iniziò una stretta collaborazione che si trasformò in forte amicizia, tanto che, quando nel febbraio del 1990 fu richiamato come Ministro del Turismo e dello Spettacolo, al posto di Carraro eletto sindaco di Roma, con mia grande emozione, mi chiese di accompagnarlo al giuramento dal Presidente della Repubblica e noi due soli salimmo al Quirinale.
Mi riconfermò nel ruolo di Vice Capo di Gabinetto, con grande perplessità dei componenti del Ministero, che non capivano il perché di quella scelta fuori partito, tanto che uno dei Direttori Generali, socialista da sempre e figlio di un ragguardevole personaggio di quel Partito, ogni volta che ero presente in qualche riunione importante, iniziava dicendo “è arrivato l’uomo con la stella rossa sul berretto”, con riferimento alle vecchie gerarchie comuniste della prima ora.
Il rapporto con il Ministro era fiduciario, e lui si fidava ciecamente del mio operato.
Quando si entra in un Ministero si trovano una miriade di dossier da dover analizzare, studiare e comprendere, e lo si deve fare in pochissimi giorni: si sale su un treno in corsa e non si può evitare di prendere il controllo.
Tra le pratiche aperte vi era quella relativa ai mondiali ci calcio che si sarebbero tenuti in quello stesso anno. Una legge del 1987 aveva finanziato la costruzione di nuovi impianti sportivi e l’ammodernamento di alcuni esistenti, ed anche di altre infrastrutture ad essi collegate, oltre ad attività ricettive per agevolare l’accoglienza.
È chiaro che la maggior parte delle istruttorie e la scelta dei soggetti destinatari era stata già operata, rimanevano solo alcune pochissime realtà che erano parecchio problematiche, tra le quali quelle relative alle strutture turistiche della Campania. L’interesse speciale per quelle richieste non era tanto nella possibilità di accedere all’erogazione dei fondi, quanto la possibilità di ottenere deroghe alle leggi urbanistiche, e quindi ad esempio costruire un ascensore nella roccia per accedere al mare sulla Costiera Amalfitana, o realizzare piscine in zone protette.
Ovviamente, nessuno si era ancora assunto la responsabilità di autorizzare quelle opere, anche se le commissioni incaricate di redigere i pareri avevano dato il consenso; tuttavia fui io a suggerire al Ministro come risolvere il problema emanando una direttiva che escludeva tutte le aree già ricche di flussi turistici per potenziare le zone minori.
Ma un altro problema si dovette risolvere in quel periodo ovvero quello della costituzione della Commissione di Collaudo per lo Stadio di Messina; già due volte era stata costituita con prestigiosissimi nomi di Servitori dello Stato, Capi di Gabinetto ed alti dirigenti di altri Ministeri, e per ben due volte c’erano state le dimissioni dai nominati.
Era una patata bollente, che nonostante il prestigio e l’emolumento non trascurabile, nessuno voleva affrontare, viste le responsabilità e le condizioni ambientali socio economiche; Tognoli mi disse semplicemente: “Te la senti?” e come il personaggio manzoniana, da sventurato risposi.
Credo che si sia trattato del collaudo tra i più lunghi mai vissuti in Italia, ma che permette oggi alla città di disporre di uno stadio che nessuno avrebbe pensato che si sarebbe mai visto finito.
Fu così che ebbi modo di conoscere due uomini diversissimi l’uno dall’altro ma che avevano in comune un tratto raramente riscontrabile: erano due persone perbene, con i quali nacque un’amicizia che con uno vive ancora oggi mentre con l’altro terminò troppo presto.
Giancarlo, normanno di Campobasso, alto, barbuto, biondo rossiccio, era l’appendice di una sigaretta.
Un Ingegnere a forma di Ingegnere, con le scarpe da Ingegnere di cantiere, con il pragmatismo del progettista che progetta per la gente, che come un vecchio capomastro, anche se era giovane all’epoca, ha in mente il prodotto finito e cerca di realizzarlo tenendo conto delle necessità della committenza, e che dirige il lavoro con la diligenza del buon padre di famiglia, e con uno solo grande difetto, idealista comunista.
Devo a lui il successo del collaudo, non solo per la grande competenza tecnica che ci ha permesso di uscire dalle secche che di volta in volta ci si sono parate innanzi, ma anche per le puntuali osservazioni che incastravano i furbetti che tentavano le solite operazioni fraudolente o i tentativi di sabotare l’impresa che era stata affrontata da tutti con l’idea della crescita dei costi in itinere, e che invece riconducemmo nei binari della correttezza. Quando con mia moglie decidemmo di conoscere il Molise trovammo in Giancarlo una guida eccezionale ed un ospite squisito; ma questa è un’altra storia.
L’altro, Pino, architetto, sognatore, fine intellettuale, profondo conoscitore di ogni norma, di ogni legge, appariva talvolta distratto o meno interessato, ma in realtà coglieva l’essenziale dei problemi e interveniva con precisazioni che definivano i problemi.
Piccolo, minuto quasi segaligno, capelli lunghi, sciolti legati con un elastico, era un reperto archeologico del mondo dei Figli dei Fiori, ripiombato nel presente a testimoniare un’epoca. Eppure era assolutamente consapevole del mondo che lo circondava, anche se non gli piaceva.
Imparammo a conoscerci perché quando c’erano le riunioni della Commissione a Messina, con la visita al cantiere, prendevamo io a Roma o a Salerno e Giancarlo a Salerno, lo stesso treno mentre incontravamo Pino a Reggio Calabria, proveniente da Lecce con un treno che viaggiava di notte ed impiegava moltissime ore, con un paio di passeggeri a bordo, tanto che alla fine il servizio fu interrotto.
Anche volendo, Messina era raggiungibile in aereo solo atterrando a Reggio o a Catania, per cui alla fine optammo per la soluzione in treno o in auto con partenza da Salerno dove insegnavo. Quindi quattro o cinque ore di viaggio e di chiacchiere, sostituiti negli ultimi tempi da un percorso in nave che ci permetteva di dormire a bordo.
Pino lo sentivo a me molto affine; curioso di storia e principalmente di preistoria, conosceva palmo a palmo la sua terra, la Puglia, in particolare il Salento, e fu naturale chiedere a lui qualche indicazione per trascorrere le ferie estive tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni 2000.
Si dette molto da fare e ci trovò una casa da affittare in prossimità del mare sulla costa tra Santa Maria di Leuca e Gallipoli.
Arrivammo, mia moglie ed io, in auto da Roma, mentre Emma e Paul arrivarono qualche giorno dopo in aereo a Brindisi dove li andammo a prendere, e ci incontrammo con Pino nella località che ci aveva indicato.
Ci condusse ad un piccolo insediamento di quelli abusivi, formato da case attaccate l’una all’altra, cubi tutti uguali con un piccolo cortiletto dal quale si accedeva al soggiorno con la cucina e due stanze da letto e un bagno piccolo; la casa prenotata era indistinguibile dalle altre, abitate da una popolazione di soggetti a dir poco rozzi, che ci lasciò sconcertati.
Ci spiegò che considerato il ritardo con il quale avevamo prenotato non aveva trovato di meglio, ma ci disse che il mare era molto bello e che ci trovavamo ad un passo da tutte le bellezze della zona; la sua natura hippie veniva fuori con prepotenza.
Ci organizzammo per il mare che era splendido, e giorno dopo giorno scoprimmo che aveva previsto di farci da guida restando praticamente sempre con noi, ed iniziò un giro fantastico di tutto il Salento.
Tutte le masserie che avevano un minimo significato storico artistico e culturale, furono da noi visitate, con il commento di uno che le aveva studiate a fondo; gli olivi secolari o una vera di pozzo avevano lo stesso valore e i racconti ad essi collegati avevano il fascino delle fiabe e l’accuratezza della lezione universitaria.
Visitammo tutti paesi sulla costa da Otranto a Santa Maria di Leuca; la Bianca Ostuni imbiancata a calce quando durante una pestilenza si utilizzò quel disinfettante naturale, con una tradizione che ancora regge in molte zone del Salento, nei pressi di Castro andammo a visitare la grotta Zinzulusa, con un importante presenza di fenomeni carsici che formavano festoni che facevano ricordare i zinzuli, ovvero gli stracci in dialetto, con riferimento ai poveri abiti indossati a una giovane figlia di un crudele barone che la costringeva in miseria, fino all’arrivo di una fata che fece sprofondare l’uomo nella grotta formando così un lago interno e gettando gli zinzuli in aria che si attaccarono alle pareti ed al terreno che si coprì così di stalattiti e stalagmiti.
Nel nostro girovagare ci fermavamo spesso in luoghi improbabili, privi di qualunque indicazione turistica, dove Pino ci mostrava antiche presenze e luoghi di culto preistoriche, con cavità ipogee orme di antiche attività e di culto e d natura industriale.
Ci fece vedere diverse cavità che in passato erano servite da rifugio agli uomini del neolitico, ed in particolare una volta ci fermammo presso una stazione di rifornimento nel cui sedime era presente una chiesa ipogea la cui rilevanza era sconosciuta perfino al benzinaio.
Il mio grande rammarico è ancor oggi di non aver pensato di registrare quelle chiacchierate, credo che avremmo potuto aggiungere molti tasselli alle conoscenze che lui stesso con i suoi libri, e altri storici ed antropologi hanno già diffuso.
Verso la fine della nostra vacanza, ci disse che non potevamo non andare una sera di fine agosto a Melpignano, dove si svolgeva una festa popolare che un etnomusicologo, Diego Carpitella, aveva organizzato dal 1998, riunione di suonatori e cantanti non professionisti.
Ovviamente accettammo il suggerimento e ci recammo in una zona di campagna all’ingresso di Melpignano, scarse indicazioni, solo qualche foglio attaccato ad un albero o ad un palo.
Parcheggiammo a ridosso di un’area dove c’erano le solite bancarelle da festa patronale con i venditori di zucchero filato, che nel napoletano si chiamano franfellicche, ovvero bastoncini di melassa stirati appesi ad un gancio, che all’aria diventano bianchi e con aggiunta di coloranti striati e colorati, preceduti dall’odore dolce stucchevole dello zucchero caramellato, banchi con frutta secca, o altri che vendevano piccoli giocattoli, da quattro soldi, o ancora abiti o scarpe di fattura locale, i soliti banchi con salumi e formaggi locali, e qualche altro venditore di cibarie.
Tutti i banchi erano illuminati fortemente con luci biancastre che però creavano un forte contrasto con le zone circostanti e le ombre sotto gli alberi si alternavano alle chiazze di luce provenienti da quei banchi.
Ma la differenza rispetto ad una classica sagra di paese era data dal fatto che il maggior numero di banchi presenti era occupato da venditori di strumenti musicali tradizionali; in prevalenza si trattava di tamburi, ma non mancavano armoniche, flauti, scacciapensieri, e putipù qualche triccheballacche, nacchere, campanelli ed altri ma il posto di rilievo era rappresentato dai tamburi.
Ve ne erano di tutti i tipi dai piccoli tamburelli con i sonagli sul bordo a quelli enormi che superavano in alcuni casi il metro o il metro e mezzo di diametro.
Tutt’intorno sotto gli alberi su formavano dei capannelli di poche persone tre, quattro. cinque, che cominciavano a suonare con le chitarre e una fisarmonica, sempre ritmando con i tamburi. Dopo poco si avvicinavano degli spettatori che andavano a formare un in circolo, qualcuno cominciava a cantare qualche vecchia tarantella e di tanto in tanto si aggiungeva qualche suonatore che attratto da quello che ascoltava si univa al gruppetto. In alcuni casi quando la musica appariva molto coinvolgente il gruppo si allargava di molto, fino a raggiungere un numero cospicuo, anche oltre la dozzina, mentre alcune donne cominciavano a ballare al ritmo frenetico che si propagava. Poi qualcuno dei suonatori si allontanava per unirsi ad un altro gruppetto che suonava di fianco e si ricominciava continuamente.
Ogni gruppo aveva comunque sempre come leader un soggetto che batteva una grande tammorra, tenendola con una mano e battendola con l’altra sia con il palmo sia con il polso; la pelle della tammorra in genere sembrava consumata, come di strumento usato da sempre e caratterizzato dalla presenza di una sorta di aureola scura degradante in prossimità dei bordi dove era battuta.
Alcuni dei presenti spiegarono a noi profani solitari estranei rispetto ai locali provenienti più o meno da tutti i paesi del Salento, che si trattava delle tracce di sangue che il suonatore perdeva, dalle piccole escoriazioni derivanti dalla foga con cui battevano, che nel tempo asciugandosi coloravano di rosso mattone la pelle dello strumento più intenso verso la cornice e meno verso le zone interne lontane dalle ferite.
Quasi tutte le donne preseti ballavano come rapite ma un paio di quelle, tra i venti e i trent’anni ballavano in modo forsennato a piedi nudi sull’erba, contorcendosi, piegandosi a metà, saltando ed agitando le braccia, arrovesciando la testa avanti e indietro con i lunghi capelli che vorticavano intorno, passando anche loro da un gruppo all’altro con foga sempre crescente; non potevi fare a meno di pensare alle menadi di dionisiaca memoria, e le danze orgiastiche, sensuali, isteriche, erano la rappresentazione dei sintomi del morso delle tarante o tarantole che sembra provocassero quei sintomi convulsivi che secondo la tradizione potevano essere affrontati e risolti con la danza e la musica.
Il collegamento con il mito di Aracne trasformata in ragno da Atena, che la giovane aveva sfidato nella tessitura è un’altra delle ipotesi di collegamento coll’antichità classica, ma è nel Medioevo che si ritrovano i primi riferimenti a quei tipi di riti che vengono svolti tra le donne meridionali a partire dal nono secolo fino al milletrecento – quattrocento quando si consolida come danza popolare, la tarantella, che si dice prenda il nome oltre che dal ragno, taranta o tarantola, anche dalla città di Taranto che era il centro di riferimento di quei riti. Qualcuno ha azzardato un collegamento con le danze dei Dervisci, anch’essi raggiungono momenti estatici attraverso il ballo vorticoso, ma credo che sia solo un accostamento casuale.
Ernesto De Martino se ne occupò in un famoso libro: “La terra del rimorso” e studiò la tradizione con Carpinella registrando per la Rai le musiche che venivano tramandate.
Inizialmente la festa si svolgeva il 29 giugno, festa di San Paolo, santo protettore dei tarantati; i fedeli si recavano in processione a Galatina dove c’era una piccola cappella dedicata al Santo e dopo le funzioni liturgiche le possedute venivano invitate a bere l’acqua di un pozzo presente, ritenuta taumaturgica, il tutto mentre i presenti suonavano musica fortemente ritmata, come si può ancora oggi vedere nelle teche Rai che conservano ancora i video originali delle ricerche di quei testimoni precursori.
In ogni caso, la festa, che di fatto conteneva simboli legati alla sessualità ed alla fertilità, fortemente osteggiati dalla chiesa, era un invito alla ribellione ai soprusi che i poveri contadini subivano dai latifondisti che li vessavano rendendo loro la vita impossibile, e di cui le donne erano le maggiori destinatarie, ragion per cui la stessa chiesa accettava e favoriva riti para esorcistici per ricondurre le devianti alle regole e all’obbedienza.
Avevo ascoltato in passato alcune di quelle musiche nel corso di una trasmissione radiofonica trasmessa quotidianamente negli anni sessanta intorno alle quindi ci dalla Rai, che mandava in onda canzoni popolari di tutte le regioni d’Italia credo curata proprio da Diego Carpitella; ricordo che di ritorno da scuola, dopo pranzo, facevo una pennichella ascoltando quella trasmissione, poi facevo i compiti e più tardi ne ascoltavo un’altra che si chiamava “Ballate con noi”, la cui sigla d’apertura, “Delicado”, mi ritorna spesso in mente.
Nessuno badava a noi; era la loro festa, la festa della taranta, che quella sera si svolgeva in quel campo, ma avrebbe potuto svolgersi sull’aia di una delle tante masserie che avevo visitato in quei giorni.
Guardare oggi quella patetica accozzaglia di cantanti neo melodici, rapper e via dicendo mi fa pensare come in meno di un quarto di secolo sia stato possibile trasformare in business una tradizione che si è conservata per oltre duemilacinquecento anni, snaturandone il significato per business sfruttando giovani ignoranti a scopo di lucro.
Restammo fino ad oltre le due di notte, lasciando i suonatori sempre più eccitati, anche se alcune donne cominciavano a mostrare segni di stanchezza; era forse questa stanchezza l’elemento magico, il mistero che guariva le donne possedute.
Il giorno dopo ci recammo a visitare Lecce con il suo straordinario barocco con la sua calda pietra facilmente lavorabile che fantastici artigiani ancora scolpivano per produrre oggetti d’arredamento di grande qualità, così come assurgevano a forme d’arte i pupazzi di cartapesta che si trovavano nelle numerose botteghe sparse in città.
Passammo per Casarano e Pino volle farci vedere la sua città, e principalmente il suo studio che ricordo solo vagamente, mi sembra che non fosse molto grande, ricordo un grande finestrone ovale, delle travi, i tavoli da disegno foto di progetti, reperti vari trovati nelle sue ricerche sul territorio, molti libri di cui alcuni scritti da lui, alcuni manufatti in selce lavorata, uno dei quali, un piccolo raschiatoio, mi regalò qualche anno dopo.
Ancora un paio di giorni per visitare Gallipoli, con la sua meravigliosa cinta muraria difensive sul mare, ed una cena epica in un ristorante dove la quantità di crostacei e frutti di mare che mangiammo, riuscì a stupire il proprietario. Il mio amico Paul, ebreo americano di origine polacca, vissuto da militare prima e da dentista poi, anche in Eritrea, dove sposò Emma, la cui famiglia italiana viveva, avendo avuto il consiglio di emigrare dal regime fascista, era ghiotto di quei molluschi e crostacei.
Alle mie ironiche puntualizzazioni quando gli ricordava i divieti che la sua religione gli imponeva, rispondeva serafico che c’è sempre kippur e continuava a premiare la sua golosità,
La nostra vacanza terminò e sulla strada del ritorno verso Taranto e Roma, ci fermammo ancora a Gallipoli per un’ultima occhiata alle splendide ville liberty.
Quella vacanza segnò per me un punto di svolta nella conoscenza dell’uomo; una grande sofferenza interiore derivante tra l’altro dalla convivenza con la moglie, che gli rendeva la vita impossibile, con i figli che amava molto ma che ormai erano segnati dalla presenza della madre, dalla mancanza di lavoro, erano danni difficili, per cui sempre più si isolava.
L’ultima volta che ho parlato con lui fu agli inizi del 2007, di ritorno da una visita di collaudo a Messina, sulla nave che ci portava a Salerno.
Come sempre eravamo stati a cena con il direttore dei lavori, e ci eravamo imbarcati verso le undici e un quarto, partendo la nave poco dopo la mezzanotte.
Faceva freddo, Giancarlo era uscito a far compagnia ad una ultima sigaretta, e Pino ed io continuammo a chiacchierare; le parole cominciarono a diventare più serie ed io fui inondato da una serie di confidenze sul suo stato di difficoltà, non solo per la carenza di lavoro, ma principalmente per i suoi rapporti con moglie e figli. Lei sempre più oppressiva e pressante, mentre in lui si svolgeva un conflitto interiore violento e lacerante.
Da tempo si era trasferito a vivere come in un accampamento nello studio, aveva conosciuto una donna con la quale aveva una mezza relazione quasi impossibile da gestire, specialmente per la mancanza di risorse economiche, avendo la famiglia da mantenere.
Le scelte giovanili di vita con una donna che si era rivelata assai diversa, ed il senso di responsabilità nei confronti dei figli, lo laceravano e nemmeno la speranza per una nuova storia gli dava speranza.
Parlava, parlava per scaricare la sua mente di un peso che non poteva comunque scaricare, confidando in me che considerava, ancora non so perché, come una specie di guru che potesse dargli qualche consiglio risolutivo, una risposta che potesse dargli pace.
Giancarlo era rientrato ed era andato in cabina, e noi abbiamo continuato a parlare fino ad oltre le due; ad un tratto si accorse che ero molto stanco e mi propose di andare a dormire. Sapevo che aveva ancora voglia di continuare per tacitare i fantasmi che lo tormentavano, ma accettai l’invito.
Ogni volta che ci ripenso mi chiedo cosa poteva cambiare se fossi rimasto.
Poco più di un mese dopo lo ritrovarono nel suo studio impiccato.
*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno