Il caso Pelicot: dal gelato al lampone all’orrore degli abusi

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Sabrina Prisco-

Qualche giorno fa ho discusso animatamente con una persona, un uomo, perché mentre leggevo un articolo sullo sconvolgente caso francese di Gisele Pelicot, la persona in questione ha fatto una battuta tutto sommato “innocente”.

La mia reazione alla battuta è stata, ovviamente, di estrema indignazione, forse eccessiva. Ma poi ci ho riflettuto. E’ stata davvero “eccessiva”?

Gisèle Pelicot è una donna francese di 71 anni che, per un caso del tutto fortuito, ha scoperto di essere stata sedata dal marito, Dominique Pelicot, per circa 10 anni, con del Tavor nel gelato al lampone. L’uomo, durante i momenti in cui lei era incosciente, la “condivideva” con altri uomini, 83 identificati, lasciando che abusassero di lei mentre lui riprendeva ogni scena.

Oggi si sta celebrando il processo contro il marito e i 51 uomini identificati accusati di stupro, uomini definiti “normali”, padri esemplari, mariti devoti, figli amorevoli, autisti, ingegneri, fiorai, infermieri.

Gisèle ha scelto, con immenso coraggio, di rinunciare al diritto alla privacy durante il processo, che la legge francese prevede per le vittime di reati sessuali ed ha testimoniato pubblicamente per far giungere la sua voce a quante più persone possibili.

Immenso coraggio perché, nonostante l’evidenza lampante dei mostruosi reati compiuti ai suoi danni, nel corso del processo ha comunque dovuto subire uno sbilanciamento di approccio da parte degli inquirenti e dell’opinione pubblica. Un approccio vergognoso che tendeva a trovare giustificazioni, spiegazioni o comunque a sminuire la gravità degli atti compiuti dagli stupratori e, contemporaneamente, a cercare mancanze o debolezze o addirittura complicità nell’atteggiamento “remissivo” della donna sedata. Ed è questo sbilanciamento che ci troviamo ad affrontare quotidianamente, in mille modi e intensità diverse, ma in ogni luogo ed in ogni contesto.

Leggere in questi giorni tanti articoli sul processo Pelicot mi è sembrata una vicinanza non casuale con la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Ma poi mi sono resa conto che se non ci fosse stato questo processo ci sarebbe stato quello all’assassino di Giulia Cecchettin o di Giulia Tramontano o uno dei tanti che si celebrano ogni giorno su questioni che riguardano la violenza sulle donne.

La verità è che questo è un argomento che è divenuto centrale ogni singolo giorno dell’anno, talmente quotidiano che il rischio che corriamo è proprio l’assuefazione. Nonostante la cronaca ci riveli episodi sempre più estremi e sempre più gravi, il fenomeno non accenna a diminuire. Anzi. Dopo la morte di Giulia Cecchettin ci sono state manifestazioni potentissime eppure nel 2024 sono già novantanove i femminicidi accertati.
Allora ho capito che la mia reazione non è affatto stata eccessiva.

Oggi le condizioni di vita delle donne, rispetto a 60/70 anni fa è cambiata moltissimo. E questi cambiamenti li dobbiamo soprattutto a quelle donne che hanno combattuto fisicamente, violentemente e coraggiosamente scendendo in strada, sfidando con fermezza secoli di storia, urtando sensibilità, scoperchiando silenzi, irritando coscienze sporche, dando moltissimo fastidio. Se oggi posso votare, se non sono obbligata a sposare il mio stupratore, se una violenza contro di me non è più solo un delitto contro la morale (ci pensate? Quest’ultima legge è cambiata solo nel 1996…), lo devo a quelle donne che hanno lottato e sono state “eccessive”.

I femminicidi, le violenze, la mancanza di diritti, ma anche i piccoli inciampi quotidiani, gli apprezzamenti non dovuti, il timore degli angoli bui, le frustrazioni, le impotenze, le disuguaglianze immotivate, fa tutto parte della stessa montagna di orrore. E per abbattere una montagna non si può procedere con un pennello, ci vogliono per forza le bombe. Non violenza ma potenza. Per sradicare una mentalità marmorea, stratificata, consolidata, avallata e tramandata da padre e madre in figlio e figlia, ci vogliono una forza e una dedizione assolute. Si procede  su di un crinale pericolosissimo, bisogna mantenere la concentrazione sulla giustizia e non perdere la rotta verso la verità, ogni piccola sollecitazione può far perdere terreno conquistato. Le battute, anche quelle apparentemente più innocenti, possono far parte di quelle sollecitazioni, quella spintarella che depotenzia ogni sforzo, che minimizza, che fa sorridere, che fa fare spallucce e che ti fa precipitare nel dirupo.

E’ faticoso, ma non dobbiamo temere di indignarci, di irritarci e di essere anche eccessive nel difendere il piccolo centimetro di progresso quotidiano che compiamo nel percorso di demolizione di decenni di pregiudizi e stereotipi, di ingiustizie e violenze, più o meno gravi, più o meno subdole.

Non esiste una pelle di donna senza una cicatrice, alcune sono visibili, altre più nascoste, alcune sono trasparenti, altre devastanti, altre irreversibili. Ma ogni donna, senza timore di smentita, ha provato, almeno una volta nella vita, sulla propria pelle, la frustrazione di subire un affronto, un’offesa, un insulto, un’ingiustizia per il solo fatto di essere donna.

Il 25 Novembre, ogni angolo di città è tinto di rosso, ma noi non dobbiamo mai spegnere quella luce né smettere di parlare, di gridare, di far rumore. Lo dobbiamo prima di tutto alle donne che hanno lottato con le unghie per risalire le faglie di quei pozzi artesiani di pregiudizi e patriarcato in cui abbiamo dormito per secoli e portarci in direzione della luce; e poi alle donne e agli uomini che verranno, ai quali abbiamo il dovere di consegnare una traccia ancora più chiara e praticabile affinché il cammino prosegua verso un mondo migliore di quello in cui oggi viviamo.

 

 

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