di Pierre De Filippo-
Il Quirinale ha un nuovo, vecchio inquilino. Dopo Papi, Re e Presidenti, si insedia oggi l’Imperatore Sergio, chiamato a furor di popolo (e anche a furor di caos politico) a rimanere saldo in sella, a guardarci dall’alto e a scrutarci con l’occhio un po’ cadente e con il nodo della cravatta storto.
Non serve in questo caso la biografia del nuovo Capo dello Stato: la conosciamo tutti perché l’abbiamo vissuta con lui, con la storia mentre questa si sviluppava.
Il Romanzo Quirinale giunge a conclusione, la meno attesa – sotto certi punti di vista – ma pur sempre una conclusione. Adesso molto di noi che l’hanno seguita ricominceranno a vedere la luce del sole, il vento in faccia, a parlare coi parenti, a lavarsi.
Ma quali sono stati i capitoli di questo romanzo?
Il primo è sicuramente quello de Il Grande inciampo, che era il frutto del giorno 1. Discutere di Draghi, usurare Draghi, strattonare Draghi poteva comportare due conseguenze: portarlo al Quirinale, dove aveva espresso volontà di andare, o lasciarlo a Palazzo Chigi. Il grande inciampo quale sarebbe stato? Perderlo da una parte e dall’altra, ipotesi non remota.
Ma, alla fine del primo giorno, questa eventualità scema.
Il secondo capitolo è quello de I nomi della rosa: Salvini, Meloni e Tajani si presentano in conferenza stampa, nell’auletta dei gruppi, con aria tronfia. Spiegano che il centrodestra ha il diritto-dovere di fare il nome e che loro hanno una terna: Marcello Pera, Letizia Moratti, Carlo Nordio. Tre nomi che non vedranno mai la luce, che non verranno mai sottoposti all’aula. Tre nomi bruciati prima ancora di incominciare.
Poi è il turno del Neocentrismo: Draghi ritorna in auge ma si parla insistentemente anche di Pierferdinando Casini. Profilo apprezzatissimo dalle Camere quello del bolognese – di cui si dice che ciascun parlamentare abbia il numero di cellulare – e anch’esso proveniente da quella Dc, come Mattarella, di cui sentiamo tanto la mancanza.
Le proposte radicali si marginalizzano ed emerge il centro, quella pancia del Parlamento – i peones, come vengono chiamati in maniera un po’ sprezzante – che vuole salvare la legislatura e, soprattutto, il vitalizio.
Altro giro, altra rosa: è il turno dei Tecnocrati. Sono Sabino Cassese ed Elisabetta Belloni. I nomi sono fatti da Fratelli d’Italia e paiono apprezzati da entrambi gli schieramenti.
Sabino Cassese ha, però, due nemici: uno è l’età, 87 primavere, il secondo è Giuseppe Conto, che il giurista avellinese ha criticato aspramente durante la pandemia.
La Belloni, invece, profilo autorevolissimo, paga l’essere il Capo dei Servizi segreti. Renzi lo dice subito: “sarebbe una sgrammaticatura”. E i nomi si eclissano.
Lo scrutinio successivo è quello delle Coalizioni spaccate: Salvini si fa convincere dalla Casellati – testarda nel voler sfidare la sorte e l’aula – dal fare il suo nome. Finisce, come era prevedibile, in un bagno di sangue: vota solo il centrodestra e alla seconda carica dello Stato mancano settanta voti. A sinistra non va meglio: s’era vociferato di Franco Frattini, neo Presidente del Consiglio di Stato. Renzi e Letta all’unisono: “no. Ha posizioni troppo filorusse”.
Conte, invece, ne aveva discusso con Salvini, ricordando il governo gialloverde.
Il penultimo capitolo è Uomini e donne: Salvini, Letta e Conte si parlano, per la prima volta tutti insieme. Esce Letta che molto prudentemente (da ex democristiano) parla di “una Presidente o un Presidente”, facendo intuire un po’ l’aria.
A togliere dubbi Salvini e Conte – quelli con la cultura istituzionale di un Gormito, per citare Renzi – che escono in piazza e parlano di presidente donna. Chiaramente la Belloni. E il fuoco di fila riprende, affossandola.
Si arriva così a La Resa: Sergio Mattarella viene rieletto, con soddisfazione o meno sarà da capire, per quanto tempo anche, con che modalità pure. Ma tant’è.
E anche questa è fatta, verrebbe da dire. Torniamo in trincea che c’è ancora tanto da fare.
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