di Pierre De Filippo-
Churchill a Fulton era stato chiaro: da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico era caduta, sull’Europa, una rigida cortina di ferro.
O di qui, nel mondo occidentale e libero, o di lì, in quello sovietico post rivoluzione d’Ottobre. Non era ammessa una terza via.
Le elezioni del 1948 in Italia seguirono esattamente questo canovaccio: la Democrazia cristiana, con De Gasperi alla guida, il cui prestigio internazionale era notevolmente cresciuto nel corso del tempo, si poneva come argine al mondo delle sinistre di orientamento marxista, comunisti ma anche socialisti.
In Italia, infatti, non c’era solo il più forte e organizzato partito comunista d’Europa ma anche un partito socialista molto massimalista che, in mancanza di validi appoggi internazionali, strizzava l’occhio a Mosca.
Alle elezioni per la Costituente, nel giugno del 1946, i partiti di Togliatti e di Nenni erano andati divisi, raccogliendo percentuali importanti (Il PSI il 20% e il PCI il 18%, prima e unica volta in cui i comunisti arrivarono dietro i cugini socialisti) mentre la DC era primo partito di maggioranza relativa col 35%.
Se comunisti e socialisti fossero andati insieme – attraverso la creazione di un fronte popolare che Stalin era tornato ad invocare – c’era davvero la possibilità che superassero, in termini di consenso, i democristiani.
La realtà, come si sa, andò diversamente: la Dc si impose col 48,5% delle preferenze ed il Fronte popolare franò al 31%.
Perché? Per più ragioni, che ci raccontano l’Italia di quel tempo.
In primo luogo perché valsero le motivazioni del voto utile e ciò polarizzò gli orientamenti degli elettori: circa l’80% dei consensi andò ai primi tre partiti, lasciando agli altri solo le briciole.
In secondo luogo, perché votare Dc significava votare per la Chiesa cattolica – “Dio ti vede, Stalin no”, predicava dal suo microfono padre Lombardi mentre Luigi Gedda, uomo di Pio XII, indottrinava i suoi “comitati civici”.
E poi, perché votare Dc significava assicurarsi l’aiuto americano del Piano Marshall, non una cosa da poco in un Paese estremamente arretrato e povero come il nostro. Da Washington erano stati chiari: se De Gasperi non avesse rotto con Togliatti – come fece nel maggio del 1947 – non avrebbe ricevuto un singolo dollaro, con buona pace delle speranze degli italiani.
In terzo luogo, perché la mobilitazione nelle piazze, le rivendicazioni sindacali – si pensi alla strage di Portella della Ginestra, Sicilia, del 1° maggio del ’47 – fecero sì che il ceto medio, che voleva nient’altro che stabilità, si stringesse ancora di più alla Democrazia cristiana ed ai suoi leader.
In quarto luogo, per la presenza e l’opera di un uomo, Luigi Einaudi, governatore di Bankitalia prima e Ministro del Tesoro poi, era riuscito a contenere la piaga dell’inflazione (i famosi corsi e ricorsi storici di Vico). Da Presidente della Repubblica, fortemente voluto da De Gasperi proprio nel 1948, continuerà a rinsaldare la stabilità e l’unità della nostra nazione.
E, in ultimo, per l’atlantismo di Saragat, uomo della sinistra moderata, che a Nenni soleva dire: “i democratici con i democratici, i comunisti con i comunisti”. Lui si sentiva un democratico e non voleva avere nulla a che spartire con Togliatti.
Propria la scissione dei socialdemocratici, nel gennaio del 1947, avrebbe sottratto importati suffragi alla sinistra e rafforzato la Dc.
Nasceva, così, il centrismo degasperiano, quella fase di storia italiana che ci ha accompagnato fino alla metà degli anni ’50 e che ha consentito all’Italia di diventare una moderna democrazia ed un Paese più ricco e prospero: dal piano INACasa di Fanfani, alla Riforma Agraria di Segni, fino alla realizzazione della Casse per il Mezzogiorno.
I pilastri erano stati eretti, ora l’Italia doveva crescere da sola.