di Pierre De Filippo-
La guerra, l’ennesima, tra israeliani e palestinesi non può che essere definita così: tra israeliani e palestinesi. Perché è vero che impegnati in questa singolar tenzone sono, rispettivamente, Hamas e le forze militari di Tel Aviv ma l’enorme numero di civili – uomini, donne, bambini, anziani, israeliani, palestinesi, cittadini di tutto il mondo – non può che farla definire così: una guerra del popolo.
L’attacco di Hamas è stato spaventosamente organizzato, preciso, programmato e spietato. Mai ci si sarebbe aspettati, osservando quanto accaduto in passato, una tale “professionalità”. Ed invece, Israele si è fatto trovare impreparato e adesso dovrà riconquistare terreno a colpi di sangue e di morte. Una lotta che si misura in termini di spietatezza e questa non è mai una buona notizia.
Ma perché ora, perché così, questa guerra?
Ci sono, io credo, almeno tre ordini di motivi: uno interno alle fazioni palestinesi; uno relativo all’attuale condizione politica che vive Tel Aviv; e uno di ordine geopolitico.
Partiamo dal primo, tutto interno ai confini, imprecisi e discussi, dello Stato di Palestina.
Le ultime elezioni politiche, celebrate ormai nel lontano 2006, hanno visto l’affermazione di Hamas che, sovvertendo ogni pronostico, si è imposto sul Fatah, il partito moderato che fa capo ad Abu Mazen, vecchio leader di tante battaglie nei decenni scorsi. In realtà, già nel 2007, Abu Mazen aveva convinto Hamas a cedere la carica di Primo ministro, lasciandogli, sostanzialmente, il controllo della Striscia di Gaza.
Abu Mazen era già un “vecchio leader” all’epoca, figurarsi ora: classe 1935, non riesce – per stanchezza e per impotenza – a gestire più nemmeno il territorio della Cisgiordania, in cui si è rifugiato. Dunque, Hamas sta tentando l’Opa, un’Opa certamente ostile e cruenta. Un’Opa per concretizzare i suoi propositi: eliminare dalle cartine geografiche lo Stato d’Israele.
Ma proprio le attuali condizioni politiche di Israele hanno funto da ulteriore detonatore per questa guerra. L’ultimo governo Netanyahu, l’attuale, è nato davvero sotto i peggiori auspici: un calderone con dentro estrema destra massimalista (il ministro degli Interni Ben Gvir e quello delle Finanze Smotrich), sionisti, sefarditi e aschenaziti. Una miscela esplosiva.
Uno dei primi atti del Sesto governo Netanyahu è stato quello di varare una discussissima legge sulla giustizia che, a parere di molti osservatori internazionali e giuristi, avrebbe sovvertito il funzionamento della democrazia israeliana che, ricordiamo, non è incardinata in una costituzione scritta ma su quello che viene definito common law, il precedente giurisprudenziale.
In piazza sono scesi un milione di israeliani in segno di protesta. La riforma, prima bloccata, è stata ultimamente rilanciata, incrementando i malumori dei cittadini.
Un Israele spaccato non si è mai visto. Ecco perché Hamas ha deciso di approfittarne.
E poi ci sono le tante ragioni geopolitiche: in primis, la volontà da parte di Hamas di bloccare il processo di normalizzazione che, a cominciare dai cosiddetti Accordi di Abramo, Israele aveva intrapreso con i paesi arabi. Nelle ultime settimane c’era stato un importante disgelo addirittura con l’Arabia Saudita, che ha sempre guidato il fronte degli antisraeliani.
Per Mohammed Bin Salman, il principe ereditario di Riad (l’amico di Renzi, per capirci), i progressi con gli israeliani erano stati “importanti e veloci”.
Stava – o starà – per nascere un nuovo mondo.
E, addirittura, sempre nelle ultime settimane l’Arabia Saudita aveva iniziato a dialogare anche con l’Iran, che è forse ancora più nemico di quanto non lo sia Israele.
Che sia stata proprio questa eventualità a spaventare Hamas? Che sia stato il silenzio che rischiava di cadere sulla “questione palestinese” ad armarli? E Teheran – di cui si è detto “non poteva non sapere” – sapeva davvero? O si è solo accodata, per forza di cose, ai complimenti di rito?
A rafforzare questa ipotesi – che anche l’Iran abbia “subito” l’attacco di Hamas ad Israele – il fatto che gli Hezbollah libanesi non si siano ancora mossi. Perché non ne approfittano per chiudere Tel Aviv in una morsa?
Questo lo vedremo e lo capiremo nei prossimi giorni.
Intanto i morti continuano ad aumentare ed è di ieri la notizia che due italo-israeliani non risponderebbero agli appelli dell’ambasciata. Che siano tra gli ostaggi o tra i morti, da quello che hanno fatto sapere i terroristi islamisti, c’è poca differenza: per ogni civile palestinese ucciso, verrà ucciso un ostaggio. Un tragico rito.
In attesa di momenti migliori.