Che genere di identità di genere

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“Cos’è un nome? Ciò che chiamiamo rosa, con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo”
William Shakespeare “Romeo e Giulietta” Atto II, Scena II

Il pensiero come l’oceano
Non lo puoi bloccare
Non lo puoi recintare
Lucio Dalla “Com’è profondo il mare”

di Giuseppe Moesch*

Non credo che il grande pubblico riconosca a volo il ruolo che gli studi che Robert Jesse Stoller ha condotto nella sua vita di analista della mente umana, abbiano avuto sull’evoluzione della società contemporanea.
Credo tuttavia che tutti riconoscano al primo sguardo una di quelle orgogliose, festose e colorate parate che di tanto in tanto si vedono sfilare per le vie delle grandi città, che inneggiano e rivendicano le identità di genere e che vanno sotto la sigla LGBT+.

Dalla metà degli anni sessanta è cresciuto il bisogno di molti di veder riconosciuto il proprio stato, che da sempre era considerato “diverso” più o meno tollerato e assai spesso deriso, considerato frutto di devianza o di vizio, e frutto di emarginazione o addirittura visto come qualcosa da estirpare dalla società.

Stoller ha avuto il merito di ricollocare in campo medico quegli aspetti della personalità umana, sdoganando quei comportamenti che sono stati rivendicati sempre più fortemente diventando emblematici.

Di pari passo cresceva la consapevolezza delle donne nel rivendicare la propria collocazione nell’ambito della società maschilista, andando a ricoprire ruoli professionali in passato appannaggio dei soli maschi; la maggior parte delle professioni, in particolare quelle liberali, portavano in generale desinenza maschile e non esisteva l’equivalente femminile.

Nella giusta battaglia per il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti di accesso ad ogni tipo di attività, superando le antiche esclusioni di genere, la società occidentale ha nominalmente superato quei limiti che vedevano le donne in posizione subordinata, anche se nei fatti le abitudini, le brutte abitudini, rimangono principalmente come barriera all’ingresso di temibili concorrenti.

È stato abbastanza naturale allora che nel clima di emancipazione generale si saldassero le richieste delle più accese femministe assimilando alle discriminazioni di genere quelle dei diritti a partecipare con pari possibilità e pari diritti anche identitari alla vita sociale ma anche con analoghe percentuale di uomini e donne all’accesso alle funzioni amministrative, e politiche.

Nasce così la normativa delle cosiddette quote rosa, e di quella relativa al diritto di denominazione al femminile delle professioni e delle attività lavorative in generale.
Tutta la discussione filosofica tra forma e sostanza potrebbe essere riproposta in questa sede ma resta il fatto che la rivendicazione del nome al femminile è solo una necessità in una realtà che non ha pienamente accettato l’eguaglianza di genere.

Medico o medica, sindaco o sindaca sono espressioni identitarie rivendicative che confermano la volontà di rimarcare la differenza: è discriminazione con i segni cambiati e tende a sottolineare la diversità, è come dire “Pensate fa il mestiere di sindaco ed è una donna”. E allora perché non dovrebbe?

Non credo sia importante di che sesso sia il medico che dovrà operarmi, spero solo che sia capace, così come non credo che l’amministratore di una società operi meglio se di genere maschile o femminile: quello che mi interessa è che ricopra quella carica per meriti oggettivi e che abbia avuto le stesse possibilità senza pregiudizi per raggiungere quei ruoli.

Questa condizione è alla base di una società meritocratica in cui ogni individuo possa godere delle medesime condizioni di partenza e godere delle stesse opportunità a prescindere da sesso, stato sociale, o quant’altro, in palese contraddizione con la logica delle quote rose, legge n. 120/2011, dove la sola appartenenza al genere garantisce un ruolo nella ripartizione nelle cariche.

Per superare una discriminazione ne abbiamo creata una nuova forse ancora peggiore.
Persi i riferimenti ideali che hanno generato quei movimenti, è rimasto solo lo strascico dello slogan utile per mobilitare masse di ignoranti che vedono la possibilità di ottenere qualche beneficio a basso costo, ed analogamente la proposta di legge presentata dal senatore della Lega Manfredi Potenti tesa ad abolire la declinazione al femminile delle attività lavorative, ha lo stesso obiettivo di raccogliere voti in quella parte di elettorato conservatore maschilista e retrivo che non apprezza l’idea della uguaglianza di genere.

La proposta è stata ritirata dalla stessa Lega che ha bollato l’iniziativa come “fuori luogo e fuori tempo” definendola come “iniziativa personale” di Potenti che “non rispecchia in alcun modo la linea della Lega”.

È ormai prassi consolidata che Salvini ed i suoi uomini giochino sull’idiozia della gente. Quando si rende conto che qualcosa sta diventando di moda lo cavalca, anche se non credo che sia in grado di capirne le conseguenze.

In ogni caso vorrei sottolineare, per tutte quelle stupide isteriche donnicciole che hanno pensato di poter affermare se stesse semplicemente declinando il proprio ruolo al femminile, che Nilde Iotti, Tina Anselmi, Lina Merlin o Emma Bonino, Ethel Serravalle in campo politico. Rita Levi di Montalcino, o Margherita Hack in campo scientifico, o le sorelle Fendi, Luisa Spagnoli quest’ultima non solo nel campo della moda ma anche in quello dolciario con la Perugina, Marisa Bellisario che fu manager Olivetti (e successivamente di Italtel, quando vittima di pregiudizi antifemministi da parte del gruppo Fiat, le fu impedito di diventare Amministratore delegato di Telit, tanto che successivamente nel 1984 entrò a far parte della Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna,) senza nominare tutte le altre che seppero in tutti i campi ad affermare le proprie capacità , vi riuscirono senza lo scudo protettivo delle quote rosa.

Non c’è bisogno di riserve di spazi o di nomi declinati al femminile, ma solo rispetto ed offerta di parità di condizioni e superamento dei pregiudizi che sopravvivono nella società a cominciare dalla famiglia.

Anche la Corte Costituzionale ha affermato che: “l’ordinamento italiano riconosce “il diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” garantiti dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani. (Sentenza n. 221 del 2015)”.

Anche l’Accademia della Crusca si è interessata della querelle in corso quando nel 2021 L’accademico Vittorio Coletti propone una riflessione sul linguaggio di genere e i nomi di professione femminili. Egli scrive infatti:” la lingua si modifica più in seguito a innovazioni sociali e culturali che per precederle e favorirle. Si scopre una cosa e le si dà un nome, si afferma una nuova sensibilità e si cambiano certe abitudini linguistiche (si pensi a parole un tempo comuni e oggi evitate perché in sospetto di discriminazione razziale o fisica); e prosegue asserendo “Se le cose di lingua si potessero regolare d’ufficio si potrebbe stabilire che i nomi di mestiere in -e valgono, come ammesso dalla desinenza, sia per il maschile che per il femminile (un assessore, un’assessore) e si risolverebbero tanti problemi. Ma la lingua e i parlanti hanno le loro abitudini (che chiamiamo regole) e non è facile e neppure possibile cambiarle d’ufficio e in poco tempo. Non c’è mai riuscito nessuno.”

Normalmente si usa il maschile inclusivo, tenuto conto che in passato il problema non era sentito; oggi ci troviamo di fronte a situazioni che ritengo ridicole più che aberranti quali la determinazione del Consiglio di Amministrazione dell’Università di Trento, che nella persona del Rettore professore Flavio Deflorian, ha confermato l’idea di “Usare il “femminile sovraesteso” quando si parla al plurale di un gruppo di persone e non il maschile. E non solo: usare le cariche declinate al femminile per indicare i ruoli di riferimento, a prescindere da chi li ricopre.”

Il regolamento generale di ateneo, per la prima volta, è stato redatto in tal modo e con questa regola, precisando nell’incipit: “I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone”.

Non è difficile comprendere come la decisione sia puramente ideologica ed è nella storia di quell’Ateneo fin dagli anni ’70, una chiara e definita collocazione e visione politica.
Non penso che la decisione possa avere serie conseguenze sulla vita sociale, ma forse lo avranno sul senso del ridicolo e dell’umorismo.

Bisogna affrontare i periodi di transizione con spirito di tolleranza, anche se come sostiene Karl Popper: “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi. […] Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti.

 

*già Professore Ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno

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