Che cosa resta? Intervista a Paolo Ciampi, scrittore e direttore di Toscana News

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Che cosa resta? – Molto, forse molto di più di quello che siamo disposti a riconoscere ora.
Intervista a Paolo Ciampi, scrittore e direttore di Toscana News

-Un’Italia che si stava schiantando contro un muro, all’improvviso rallenta. I riflessi condizionati  diventano parti dominanti delle nostre vite. Qualcosa cambia in tutti e in tutto. Cambiano anche i calendari editoriali. Un cambiamento dolente per alcuni, ma se  vogliamo vedere bene, ristringe la quantità puntando verso la qualità? Un fenomeno che doveva accadere già da prima?

Sì, chiaro che a fronte di quanto è successo in questi mesi tutte le programmazioni editoriali sono saltate. Io stesso ho registrato lo spostamento di un libro scritto a quattro mani con Tito Barbini – L’isola dalle ali di farfalla – dai primi di marzo ai primi di maggio. Mal di poco, per quanto mi riguarda. Il problema ovviamente non è nemmeno quello della sospensione delle uscite, ma dell’impatto della crisi su una realtà già molto fragile. Negli scorsi giorni l’Associazione Editori ha calcolato che un editore su dieci sta valutando la chiusura entro l’anno, mentre altri due su dieci la considerano probabile. Si stima anche la riduzione di un terzo dei titoli entro l’anno.
Ora, a me piace tenermi stretto l’ideogramma con cui i cinesi indicano il concetto di crisi, che rimanda alla difficoltà, ma anche all’opportunità. Per esempio una riduzione dei titoli sarebbe una cosa salutare per la nostra editoria, in un paese dove pare sia più facile scrivere che leggere e dove sicuramente si pubblica troppo. Ma tagliare i titoli non significa automaticamente innalzare la qualità. Potrebbe semplicemente succedere che resistano i titoli delle case editrici con le spalle più larghe e vengano meno le proposte più interessanti e originali di chi non ha i mezzi.
Una cosa comunque è sicura, ne usciremo solo con un nuovo patto che metta.

-Il ruolo dei social, tanto criticato, per la prima volta in un preciso momento storico,
segue una traiettoria comune a tutti: la solidarietà e l’arte. Le piattaforme si trasformano in librerie e musei aperti. È la conferma che il problema non sono i social, ma bensì il modo come li usiamo?

Perfettamente d’accordo, il mezzo non è mai neutro o intercambiabile, ognuno ha i suoi pro e i suoi contro, dopodiché ciò che conta davvero è l’uso che se ne fa. Forse è stata fatta di necessità virtù, ma credo che in questo periodo cultura e arte abbiano saputo vincere perplessità e ritrosie cogliendo opportunità importanti. Per quanto mi riguarda quasi ogni giorno ho partecipato in Rete a videoconferenze, presentazioni, persino aperitivi letterari. Iniziative a volte chiuse e a invito, a volte aperte a un numero di partecipanti teoricamente illimitato, più ampio comunque che nell’era pre-covid. Ci sono stati gruppi di lettura che in questo periodo hanno continuato a riunirsi, a volte con una frequenza addirittura maggiore. Ci sono state librerie che, malgrado le enormi difficoltà, non hanno disperso le loro relazioni. E festival e addirittura saloni che si sono riproposti on line. Certo che poi mancano gli sguardi, gli abbracci, le firme sui libri, gli incontri casuali, i libri sui banchi sfogliati e scelti, persino l’odore della carta. Però questo mondo ha reagito alle chiusure e ai distanziamenti ritrovandosi e riconoscendosi come una grande comunità che non mi piace nemmeno definire virtuale.
Credo che sia più di una buona esperienza – e di un segnale incoraggiante. Credo che qualcosa di tutto questo dovrà rimanere. Anche finita l’emergenza, per esempio, tanti incontri in libreria potranno avvenire su piattaforme on line, magari con sistemi di vendita che garantiscano la stessa libreria e, perché no, con possibilità di dedica digitale.
E sarà non più una necessità, ma un’opportunità, con un contenimento di costi, tempi e inquinamento.

-Stampa dipendente o indipendente? Nel caso di una dipendenza, quanto sollievo dà l’applicazione dell’indipendenza come scrittore? In lei, quale è il punto dove finisce il giornalista e comincia lo scrittore?

Beh, è difficile cosa sia il giornalismo indipendente. E non parlo dell’assetto attuale dei media in Italia. Da sempre ogni giornale ha il suo editore e quindi una sua linea editoriale: e casomai bisognerebbe interrogarsi sull’indipendenza dell’editore.
Mi verrebbe da dire che il giornalismo indipendente è quello più dipendente dai suoi lettori, perché la testata in cui si esercita sa far quadrare i conti con scelte consapevoli di acquisto e abbonamento. Quindi il giornalismo indipendente ha bisogno di lettori indipendenti decisi a investire ogni giorno qualcosa nel bene dell’informazione.
In ogni caso io preferisco parlare di giornalismo corretto, ben agganciato alle sue regole deontologiche, capace di non risparmiarsi nell’ individuazione delle fonti e nelle verifiche. Non è bello scrivere, il giornalismo, è lavorio faticoso in direzione della verità, qualunque sia la verità, nella consapevolezza, in ogni caso, che
la verità è come una farfalla che si insegue ma non si lascia mai catturare una volta per tutte.
E qui vengo alla differenza tra il giornalista e lo scrittore. Tanti sono stati i giornalisti scrittori, ma benché entrambe le attività maneggino le parole si tratta di due cose molto distanti. Tanto che alcuni grandi scrittori – penso per esempio a Romano Bilenchi – sono riusciti a essere tali nella misura in cui si sono allontanati dal giornalismo.
Non è solo che nel giornalismo tratti la notizia, hai tempi stretti, pubblichi su fogli che, si dice, la sera stessa serviranno solo per incartare il pesce. Non è nemmeno vero, tra l’altro, perché ci sono pezzi giornalistici che resistono agli anni più di tanti romanzi, io in questi giorni lo sto verificando con Indro Montanelli e Gianni Mura. È diverso il respiro, il coinvolgimento emotivo, la risonanza interiore, il tempo che ti concedi, il bisogno di narrazione e molto altro ancora.
Mi vien sempre di pensare a due cassetti. Ne chiudi uno per aprire l’altro, non puoi tenere entrambi aperti. Poi certo il giornalismo ha regalato qualcosa alla mia scrittura: direi in primo luogo l’attenzione per il lettore, perché è questo che conta, non scrivi per te, ma per chi dovrà farti un regalo di tempo e attenzione.

Il concetto -confine- diventa empirico per tutti. Forse unico modo per conoscere il grande valore della parola libertà?

Dipende cosa si intende per confine. Ne ho attraversati molti nella mia vita, sempre con grande piacere. Per questo non mi infastidiscono i confini, credo che in qualche modo anzi mi facciano bene. Sono un elemento di ordine, un modo di arginare il caos, un invito a riconoscere e apprezzare la differenza. Non mi piacciono i confini che si fanno muro, questo sì: soprattutto se sono muri per tenere fuori gli altri, dimenticando che in primo luogo sei tu che ci perdi, perché non riesci più a vedere cosa ci sia dall’altra parte. Della parola confine ci si dimentica sempre il primo pezzo, quel “con” che implica vicinanza. Finisco dove inizi tu e viceversa. Siamo insieme, da qui si parte.

Che cosa resta?

Molto, forse più di quanto siamo disposti a riconoscere ora. Il confinamento a casa per molti di noi, il distanziamento, la sospensione di molte attività ci lascerà anche qualcosa di buono, nonostante i lutti e le difficoltà. Ci siamo ritrovati in famiglia, abbiamo ripreso in mano libri, trovato tempo per la musica o per un orto sul balcone. Fosse anche per il distacco abbiamo potuto apprezzare quanto contano certe relazioni. Stiamo ripensando alle nostre città – che silenzio, che profumi nei giorni scorsi – all’organizzazione dei nostri uffici, ai nostri spostamenti, alla possibilità di usare meno la macchina e più la bici: e magari ci dovevamo arrivare prima, ma in ogni caso stiamo riordinando le nostre priorità. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo conosciuto uno straordinario periodo di crescita e creatività, dove tutto sembrava nuovo e facile. Forse anche il domani ci regalerà questo sorriso.

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