
-di Pierre De Filippo-
Dopo giorni intensi, fatti di colloqui informali e telefonate, finalmente il Consiglio dei Ministri s’è deciso a redigere il Recovery Plan italiano, il cui “via libera” è stato ottenuto solo dopo l’okey di Ursula Von Der Leyen, che Mario Draghi ha cercato di convincere circa la bontà delle nostre intenzioni.
Il Piano – già più volta stracciato e riscritto (anche il governo Draghi ne ha presentato già due versioni, seppur la prima esclusivamente in bozza) – verrà discusso in questi giorni in Parlamento, prima di essere inviato, entro il 30 del mese, a Bruxelles per una prima valutazione.
Le cifre sono comprensibilmente astronomiche: 191 miliardi provenienti dal Next Generation UE, di cui circa 122 di prestiti e circa 68 a fondo perduto, a cui il Governo ha deciso di affiancare altri 30 miliardi contenuti in un apposito Fondo complementare.
Una spesa complessiva di circa 221 miliardi di euro. Un’enormità.
Un’enormità che verrà spesa per effettuare l’indispensabile rivoluzione green, accelerando il processo che porterà il nostro continente alla progressiva diminuzione dell’utilizzo di combustibili fossili (carbonio in primis); per rendere l’Italia più digitale, integrata e connessa; per modernizzare le nostre infrastrutture e per rendere meno caotica la nostra viabilità; per rafforzare istruzione e ricerca; per far sì che inclusione e coesione riducano le nostre diseguaglianze; per continuare a vantarci del nostro SSN.
Accanto a queste missioni – come quasi fideisticamente sono state definite – sarà, però, necessario mettere mano alle cosiddette riforme strutturali, quelle che il Paese lo fanno funzionare davvero perché ne rappresentano gli ingranaggi.
Al primo posto, vi è la pubblica amministrazione, sottodimensionata (secondo i dati OCSE) e gerontocratica. È proprio questo l’aspetto più preoccupante: una PA fuori dai tempi, non digitalizzata e restia a farlo. L’impiegato pubblico non è smart, essenzialmente.
Il Piano si concentra su quattro dimensioni: il reclutamento, che deve essere più rapido e che le cui prove debbono essere effettivamente orientate a verificare le competenze dei candidati, anche andando oltre i concorsi ordinari; la buona amministrazione, che deve puntare ad essere minimale, eliminando i proverbiali “lacci e lacciuoli”, che costano – secondo alcune stime – oltre 30 miliardi all’anno alle imprese; le competenze, sempre più diversificate e centrate su un mondo che cambia; la digitalizzazione, che abbatte tempi, costi e rende efficiente il processo burocratico.
Il secondo grande tema è la giustizia, le cui tempistiche sono incompatibili con quelle del buon andamento di un Paese civile.
Servono più magistrati in servizio (e non dislocati a fare i capi di gabinetto presso i Ministeri); serve rendere il tribunale una piccola impresa sputasentenze, che detto così non pare l’ideale ma è ciò di cui abbiamo bisogno: efficacia, efficienza ed economicità possono essere i perni anche della giustizia; rafforzamento del ruolo delle cosiddette Alternative Dispute Resolution (arbitrati e simili).
La terza riforma è data dalla semplificazione burocratico-legislative. Avete presente quella sensazione, spiacevole, che ha chi legge un testo di legge? L’idea di non aver compreso assolutamente nulla? Quello è il problema.
Lo si risolve scrivendo leggi più comprensibili, eliminando tutto il superfluo, accorpando, razionalizzando, sintetizzando. Da questo punto di vista, i cosiddetti Testi Unici (quelli all’interno dei quali sono contenute tutte le leggi riguardanti una materia) sono una santa cosa.
Il quarto pilastro è la concorrenza, un termine che ci spaventa e che sentiamo lontano. Concorrenza non è sinonimo di turbocapitalismo o simili ma di un mercato che funziona bene, senza rendite di posizione. Dal 2009 è previsto l’obbligo di una legge annuale per il mercato e la concorrenza, che noi abbiamo deliberato solo nel 2017. Spuria.
Occorrerà prestare più attenzione alle barriere all’ingresso nei vari mercati, abbattendole e permettendo a chiunque di accedervi, di fornire a tutti le medesime informazioni di base, di conciliare pubblico e privato con strumenti sempre nuovi, di incrementare i poteri di vigilanza antitrust.
In ultimo, la riforma del fisco, non più rinviabile.
L’IRPEF necessita di modifiche ed è da tempo soggetto ad audizioni parlamentari; l’evasione fiscale rimane altissima e non è giustificabile dalla pressione fiscale alta perché è, semplicemente, un cane che si morde la coda; la tassazione sulle imprese, che soffoca il nostro tessuto produttivo.
Serve sostenere i giovani, permettendo loro di accedere al mercato del lavoro; serve sostenere l’occupazione femminile e, allo stesso tempo, la natalità, due temi non più antitetici, serve rafforzare le politiche attive per il lavoro, permettendo a domande ed offerta di incontrarsi più velocemente.
I soldi del Recovery sono tanti, tantissimi.
Ma la vera sfida sarà rinnovare il Paese. E le riforme strutturali sono il primo step per cominciare a farlo.
Fotografia: ECB President Draghi met MEPs to discuss financial market issues” by European Parliament is licensed with CC BY-NC-ND 2.0. To view a copy of this license, visit https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/