di Michele Bartolo-
Tra i tanti casi di cronaca nera dagli aspetti inquietanti, rimasto irrisolto da molti punti di vista, vi è un processo mediatico che non ha precedenti nella nostra storia e che si è svolto di pari passo con il procedimento giudiziario.
Mi riferisco al delitto di Cogne, piccola località della Valle d’Aosta, che per mesi occupò le prime pagine dei giornali.
Prima di esso, probabilmente, solo la vicenda di Alfredino Rampi, il bambino caduto e morto nel pozzo di Vermicino nel 1981, aveva avuto così tanto risalto mediatico. Ma mentre la tragedia di Vermicino era durata pochi giorni, il delitto di Cogne, non trovando una soluzione immediata, si è trasformato in una specie di reality, un appuntamento fisso.
Ogni giorno chi accendeva la tv o chi apriva un giornale si chiedeva quali novità ci fossero, quali fossero le ultime dichiarazioni dei protagonisti della vicenda. Di fatto quello di Annamaria Franzoni è il primo caso in cui un ipotetico assassino, nonché madre della vittima, va in televisione a dare la sua versione dei fatti.
Tra l’altro, l’ampia risonanza mediatica del caso è stata centrale anche nella strategia di difesa dell’avvocato della Franzoni, il noto penalista Carlo Taormina, che occupava gli studi televisivi insieme alla sua cliente.
Ma cosa è successo a Cogne e quando? Era la mattina del 30 gennaio 2002 quando al centralino della Valle d’Aosta del 118 arrivò una chiamata di Annamaria Franzoni in cerca di aiuto. Passate da poco le 8, la donna denunciò lo stato di salute del figlio Samuele, che aveva tre anni e stava “vomitando sangue”.
La macchina dei soccorsi partì nell’immediato ma, purtroppo, per il piccolo non ci fu nulla da fare. I soccorritori constatarono che le ferite sul corpo della vittima erano frutto di un atto violento e avvisarono i carabinieri, che effettuarono i primi sopralluoghi. Il piccolo, che presentava una profonda ferita alla testa, fu dichiarato morto alle ore 9:55.
L’autopsia stabilì come causa del decesso almeno diciassette colpi sferrati con un corpo contundente. Quaranta giorni dopo il delitto, la madre fu iscritta nel registro delle notizie di reato e il 14 marzo 2002 venne arrestata con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dal vincolo di parentela. Sono molti i fattori che hanno trasformato il tragico evento in un processo mediatico. Sicuramente, prima tra tutte, la tipologia del delitto, ossia una madre che uccide un figlio, da sempre e giustamente attrae il pubblico.
Tutte queste riflessioni, nel caso di Cogne, sono state rafforzate dalla presenza di Annamaria Franzoni in televisione. Poterla vedere, studiarne le mosse, capire se stesse mentendo o stesse dicendo la verità, sono stati tutti gli ingredienti che hanno alimentato la curiosità morbosa del telespettatore.
Dal punto di vista giudiziario, il caso si conclude con la condanna della Franzoni, ritenuta colpevole dell’infanticidio. Il 19 luglio 2004 la donna viene condannata in primo grado a 30 anni di reclusione, e, in fase di appello, nel 2007 la pena viene ridotta a 16 anni, poi confermata dalla Cassazione nel 2008. Anna Maria Franzoni ha scontato in tutto sei anni di carcere e cinque mesi di detenzione domiciliare, estinguendo la pena in anticipo per buona condotta.
Da settembre 2018, quindi, è libera grazie all’indulto e ai giorni di liberazione anticipata. L’opinione pubblica, invece, continua ad essere divisa tra colpevolisti, ovvero coloro che credono nella spiegazione più semplice di quanto accaduto, la tragedia di una madre che uccide il suo bambino, ed innocentisti, coloro i quali stentano a credere che una mamma che ha commesso un delitto del genere non crolli e continui invece a professare la sua innocenza, nonostante, bisogna dirlo, nessuna delle ipotesi alternative si sia rivelata verosimile.
Sicuramente, a distanza di oltre venti anni dal delitto, esauriti i tre gradi di giudizio, rimangono irrisolti i misteri che hanno avvolto il caso sin dall’inizio: l’arma del delitto mai trovata, il movente, i presagi di morte prematura del piccolo Samuele Lorenzi.
L’arma è un oggetto tagliente con il manico, mai trovato o, per lo meno, mai individuato tra quelli repertati dagli investigatori. Questa l’ipotesi finale, formulata dai giudici di Cassazione, sull’arma con cui e’ stato ucciso Samuele Lorenzi il 30 gennaio 2002. ”Il mancato reperimento dell’arma del delitto (ma sembra più corretto parlare della sua mancata individuazione, non potendosi escludere che sia stato usato un oggetto presente nell’abitazione, reso non identificabile in seguito all’eliminazione di ogni utile traccia), unitamente alla circostanza che non e’ stata dai Lorenzi denunciata la scomparsa di alcunche’, ha del tutto ragionevolmente indotto i giudici a considerare ancor più implausibile l’ipotesi della responsabilita’ di un estraneo”.
Il movente: a spingere Anna Maria Franzoni a uccidere il figlioletto Samuele potrebbe essere stato un capriccio del bimbo, secondo le motivazioni della sentenza di condanna della Cassazione del luglio del 2008. Tuttavia non e’ stato possibile, sempre per la Suprema Corte, individuare con ”certezza” la ”causale od occasione che origino’ il gesto criminoso”. Ma questa circostanza ”non impedisce – dicono i giudici della Cassazione – data la concludenza del quadro indiziario, di ascriverne la responsabilità all’imputata”.
Infine, il presagio di morte prematura: Anna Maria Franzoni nutriva ”preoccupazioni” per la ”normalita’ ed il regolare sviluppo di Samuele”. Questa sorta di ossessione, emersa sin dai primi giorni dell’inchiesta e citata anche nella sentenza definitiva di condanna, porto’ la madre a formulare il ”presagio di una sua possibile morte prematura”.
Ed è questa la tragica realtà per cui, ancora oggi, ognuno di noi ricorda il nome di un piccolo comune valdostano di poco più di mille abitanti, che sorge al cospetto del massiccio del Gran Paradiso, Cogne.
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