Un delitto senza movente, il caso di Marta Russo

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di Michele Bartolo-

Il 09 maggio del 1997, all’interno della città universitaria della Sapienza di Roma, una  Marta Russo, studentessa di giurisprudenza ed ex campionessa regionale del Lazio di scherma,  fu gravemente ferita da un colpo di pistola, morendo cinque giorni dopo in ospedale. Constata la morte cerebrale i genitori, seguendo un desiderio espresso nel tempo da Marta, hanno donato gli organi.

L’omicidio fu al centro di un complesso caso giudiziario oggetto di grande attenzione mediatica, sia per il luogo in cui era stato commesso, sia per la difficoltà delle prime indagini, che non riuscirono a delineare un movente, vertendo su ipotesi non confermate come lo scambio di persona, il “delitto perfetto”, il terrorismo e infine lo sparo accidentale, sia, infine, per l’intervento di personalità politiche, specie a causa dell’atteggiamento dei due pubblici ministeri, ritenuto da molti eccessivamente inquisitorio.

Giova ricordare che nel 2003, principalmente sulla base di una controversa testimonianza, fu condannato in via definitiva per omicidio colposo aggravato l‘assistente universitario di Filosofia del diritto Giovanni Scattone, mentre un suo collega, Salvatore Ferraro, fu condannato limitatamente al reato di favoreggiamento personale.

Entrambi, bisogna aggiungere, si sono sempre professati innocenti. Questa, in sintesi, la storia di anni di processi, indagini, testimonianze, sentenze, dibattiti sul tema. Come in molti casi giudiziari, soprattutto quelli di cronaca che si dipanano in anni di processi, spesso caratterizzati da esiti contraddittori tra loro, anche sulla base delle stesse acquisizioni probatorie, la verità scaturita dalle sentenze definitive non ci aiuta a scoprire il perchè della morte della povera Marta.

Ed infatti, dopo ventisei anni dal fatto, l’arma e soprattutto il movente del delitto rimangono avvolti da  fitto mistero.

La prima, la pistola da cui partì il proiettile calibro 22 che  penetrò la nuca della vittima, dietro l’orecchio sinistro, spezzandosi in undici frammenti che causarono danni irreversibili, non è mai stata ritrovata. Si è solo appurato che il colpo partì dalla finestra di una delle aule della Facoltà di Giurisprudenza.

Il secondo, il motivo per il quale si sparò quel colpo, è tuttora avvolto dai dubbi. I testimoni dell’epoca, pochi e spaventati, tra i quali  la dipendente dell’Università Gabriella Alletto, ricostruiscono, in modo parziale, i fatti. Manca però, come si è detto, il movente.

Si ipotizza che quel tiro al bersaglio fosse una messinscena frequente, destinata a  non fare danno, ma vizio nascosto di due giovani assistenti universitari, Scattone e Ferraro appunto, seguaci delle teorie del superomismo nietschiano. Se fosse così, si sarebbe trattato di un gioco finito male.

Nel campo del diritto penale, tuttavia, se io sto giocando ma lo faccio con una arma da fuoco e sparo un colpo, in quello stesso momento di fatto io accetto che quel colpo possa assumere una traiettoria pericolosa, al punto da poter colpire, ferire o anche uccidere una persona. Poste così le cose, non si può neanche parlare di omicidio non voluto o meramente colposo, ma di un omicidio volontario, se pure qualificato da quello che viene definito, nell’ambito delle categorie giuridiche, come dolo eventuale.

Non è solo colpa, quindi, imprudenza o imperizia, ma qualcosa in più, l’accettazione consapevole del rischio che quel colpo non costituisca l’esercizio di un gioco ma possa essere la causa della morte di una persona, seppure nell’ambito delle possibilità o eventualità che ciò accada, ma che io ho ben presente nella mia testa quando eseguo questa pratica di tiro a segno.

Alla fine, come sappiamo, al di là della richiesta di pene esemplari da parte della Procura, fondata sulla tesi del dolo eventuale, Scattone e Ferraro, pur proclamandosi, si ripete ancora una volta, sempre estranei al delitto, vengono condannati a pene lievi, cinque anni  e quattro mesi per omicidio colposo a Scattone, mentre soli quattro anni  e due mesi per favoreggiamento a Ferraro.

Nella sentenza, viene ammessa la sconfitta della Giustizia, si dice sostanzialmente che  Giovanni Scattone ha sparato, ma non si sa né perché né come.

 

 

 

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