Security o Privacy? L’importanza degli equilibri

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Intervista all’Avvocato Gaspare Dalia, Docente di Diritto Processuale Penale Comparato presso l’Università degli Studi di Salerno.

– Avendo preso coscienza che i nuovi modi di comunicazione e la connessione globale delle nostre vite sono oramai un dato di fatto, l’opinione pubblica si interroga sempre più sul rapporto che intercorre tra privacy e i cosiddetti social. Lei cosa pensa al riguardo?

“I socialnetworks, gli smartphones e la tecnologia in generale hanno “invaso” le nostre vite, modificando usi e costumi, divenendo estensioni moderne delle nostre coscienze e delle nostre identità e, in alcuni casi, facendoci anche un po’ perdere il contatto con la realtà. Anzi, sembra quasi che se non si è “connessi” (se non si condividono, cioè, stati, foto e quant’ altro), si resta isolati, fuori dai moderni rapporti umani, e poco importa se tali interazioni siano solo virtuali. Quindi è cambiato anche il modo di intendere la propria intimità: i social impongono di ripensare il concetto di privacy (anche perché, latu sensu inteso, sarebbe impossibile da far rispettare), poiché ci si espone al pubblico, lasciando una traccia che non conosce limiti temporali”.

– Quindi, è corretto affermare che in questa nostra era la privacy è morta?

“Non è morta. Dobbiamo solo prendere atto che ne è cambiata la vecchia concezione che avevamo, accettando che le nostre vite, i nostri pensieri e le nostre abitudini possano essere rese pubblici. Credo, comunque, che di ciò non si abbia piena coscienza. Sarebbe opportuno ed importante istruire le persone perché ne facciano un uso sempre più consapevole.
Da un punto di vista giuridico, nei casi di cronaca nera, assistiamo a delle vere e proprie “radiografie” della vita degli indagati, che fanno fuoriuscire anche notizie e abitudini non oggetto di indagine, le quali finiscono per costituire oggetto di veri e propri processi mediatici.

-E’ giusto violare la privacy di una persona laddove vige il principio di presunzione di innocenza sino a sentenza passata in giudicato?

“Può sembrare banale, ma l’uso delle tecnologie altro non è che il modo di farci lasciare più tracce: tracce dei nostri spostamenti, tracce delle nostre ricerche, tracce dei nostri “sentimenti”, etc. Ciò non fa altro che fornire, ad eventuali inquirenti, una mole enorme di dati di cui, necessariamente, l’autorità giudiziaria si servirà per le sue indagini. Purtroppo, però, la nostra cultura giuridica, di chiara matrice inquisitoria (nonostante la tendenza manifestata con il nuovo codice di procedura penale di volere un processo “all’americana”, che valorizzi il modello “adversary”), ha ritrovato nuovo vigore a causa della persistenza nel nostro Paese di allarmanti fenomeni criminali, nonostante l’appartenenza ad un’Unione Europea sempre più protesa, invece, alla valorizzazione dei principi e dei diritti fondamentali riconosciuti dalle Carte internazionali e, in particolar modo, dalla CEDU. Per questo è inevitabile che, in un ordinamento come il nostro, gli inquirenti indaghino nelle vite dei “sospettati” e che compiano tutti gli atti utili per l’accertamento dei fatti. Quello che non è giusto è che ci sia poco controllo (e la mancanza concreta di conseguenze) sulla fuoriuscita di queste notizie, che sarebbe opportuno rimanessero all’interno dei palazzi di Giustizia e non fuoriuscissero se non quando ciò sia inevitabile per garantire la pubblicità del processo. E’ necessario, cioè, contemperare equamente il diritto di cronaca con il diritto alla privacy, rispettando i principi di proporzionalità e adeguatezza. In tale senso, auspico che la nuova direttiva per il rafforzamento della presunzione di innocenza (che il Consiglio d’Europa e il Parlamento hanno da poco approvato) faccia chiarezza e conduca ad un più corretto uso degli strumenti investigativi, da parte dell’Autorità Giudiziaria, e un maggior controllo sul diritto di cronaca rispetto a notizie di reato, senza mai pregiudicare la dignità dell’individuo”.

-In questi giorni, abbiamo assistito ad uno scontro tra l’FBI e l’Apple, con i primi che pretendevano dalla “casa della mela” lo sviluppo di un software che desse facoltà ai federali americani di accedere agli smartphone di terroristi o presunti tali, in ragione dell’esigenza di tutelare la sicurezza nazionale. Come sappiamo, l’azienda fondata da Steve Jobs non ha assecondato tali richieste. Da studioso del diritto processuale statunitense, qual è la sua posizione in merito?

“Negli Stati Uniti, a differenza del nostro Paese, le indagini sono svolte dagli organi di polizia che hanno una grande autonomia d’azione e, anche per questo, il metodo di accertamento trova molto spesso dei limiti maggiori alla loro capacità investigativa, in ragione dell’esigenza di tutelare eventuali distorsioni di tale potere, seppur avallato ex post da un intervento giurisdizionale. Il caso della Apple, pertanto, è molto interessante da un punto di vista giuridico, perché ha fornito l’occasione per discutere di quello che sarebbe potuto diventare un pericoloso precedente. La Apple, nel caso di specie, ha ribadito di voler garantire e tutelare i propri clienti, i quali, al momento dell’acquisto degli apparecchi e della registrazione ai suoi servizi, danno il consenso al trattamento dei propri dati alla sola casa costruttrice e, quindi, si pone l’obiettivo di tutelare la loro privacy, nonché di non divulgare arbitrariamente informazioni alle forze di polizia anche in presenza di un ordine di un giudice. Tale salvaguardia è stata anche avallata dall’alto commissario ONU per i diritti umani, che, riferendosi alla vicenda dell’attentato terroristico di San Bernardino, ha sostenuto la correttezza della decisione della Apple, affermando che la polizia disponesse di molti altri modi per ricercare eventuali complici dei killer, senza dover per forza minare la sicurezza dei telefoni di milioni di persone con la programmazione di un software ad hoc che creasse una backdoor per inserirsi in sistemi operativi senza il consenso degli utenti. Le conseguenze all’adesione ad una tale richiesta sarebbero state, com’è immaginabile, devastanti.”

-Crede che le scelte adottate negli States e la conseguente linea politica sulla questione possa avere incidenze anche nel nostro Paese?

“Penso che sia abbastanza evidente che gli Stati Uniti siano dei precursori e che le scelte operate in quel Paese abbiano dei riflessi sugli altri (e l’Italia non farebbe certo eccezione). Sarei facile profeta se dicessi che, in futuro, la soluzione di questi dilemmi, sia sotto il profilo politico che sociale, sarà condizionata dalle scelte fatte oltreoceano. Tuttavia, da un punto di vista giuridico, dobbiamo fare i conti con le notevoli diversità dei nostri ordinamenti giuridici, anche se ciò non significa non far tesoro di quelle esperienze per migliorare un sistema, come il nostro, che è tendenzialmente accusatorio e, pertanto, sufficientemente garantito. L’ideale sarebbe implementare incondizionatamente il corredo di garanzie riconosciute e adattarle al modo in cui si evolve la nostra società”.

-Ora che il livello di allerta per eventuali attacchi terroristici è elevatissimo in tutto il mondo, Le chiedo: è meglio la privacy di tutti o la sicurezza di molti?

“Certamente, la sicurezza di molti. Il punto, però, rimane sul limite che, comunque, deve essere sempre rispettato, per evitare storture su chi e come può accedere ad informazioni personalissime. Tale limite può ritrovarsi solo in un sistema che garantisca sempre equilibri di salvaguardia di tutti gli interessi in gioco e tuteli la separazione dei poteri, per dare ai consociati sempre la risposta migliore, ovvero sicurezza e privacy bilanciate equamente, nel rispetto – e lo ribadisco – del principio di proporzione tra esigenze investigative e fatto per cui si procede”.

-Quale sarebbe la soluzione migliore per garantire un sicuro Stato di diritto?

“La soluzione è sempre la stessa (e non è certo una novità): garantire un reale equilibrio tra autorità e libertà, evitando sproporzioni anche durante la fase degli accertamenti investigativi, senza correre il rischio che l’emergenza del momento ci faccia scivolare, inevitabilmente, verso una concezione autoritaria di uno Stato che potrebbe garantire più sicurezza, ma ad un prezzo troppo alto”.

-Dunque, secondo Lei, questo veloce espandersi della comunicazione e della tecnologia è una affermazione, modernamente intesa, di maggior libertà o, paradossalmente, abbiamo finito per essere meno “liberi” di prima?

“In linea di massima, sono delle risorse, delle ricchezze contemporanee che semplificano la vita, ma, per evitare che degradino a deterrenti di rapporti umani o, addirittura, a strumenti per compiere più facilmente piani criminali, è necessario maggior informazione, consapevolezza diversa e una nuova cultura riguardo ai moderni modi di interagire, perché se il lato buono di questo fenomeno non evolve come sta evolvendo il lato oscuro, quello che per me oggi rappresenta una maggior libertà, anche se con qualche limite, finirà per diventare una falsa libertà o, addirittura, una schiavitù”.

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