di Michele Bartolo-
Il 7 agosto 1990 una ventenne romana, Simonetta Cesaroni, viene uccisa con 29 coltellate nell’ufficio degli Ostelli della gioventù dove lavora come contabile. Ufficio che si trovava in via Poma, nel centro di Roma.
Da quel giorno sono passati più di 33 anni senza che, ancora oggi, si sappia chi si è macchiato dell’atroce delitto. Colpevoli certi poi dichiarati innocenti, errori nelle indagini, un lungo processo in tre gradi di giudizio e chiari depistaggi.
Quello di via Poma è diventato quindi un mistero, uno dei tanti casi irrisolti dalla Giustizia italiana. Nell’inchiesta ci sono avvicendati tre grandi sospettati, risultati poi innocenti. Subito il portiere del palazzo, Pietrino Vanacore. Poi il giovane Federico Valle e, venti anni dopo il fatto, l’ex fidanzato della vittima, Raniero Busco.
Certamente, invece, sono risultati carenti i testimoni, alcuni perché ormai sono morti, altri perché non hanno voluto parlare. E’ l’ estate del 1990, la prima settimana di agosto a Roma sono rimaste poche anime.
Tra quelli che non hanno lasciato la città rovente, c’è Simonetta Cesaroni, 19 enne del quartiere di Don Bosco, che quell’estate ha deciso di lavorare come segretaria. È in procinto di partire per le vacanze senza il fidanzato Raniero, con il quale qualche giorno prima ha litigato, ma prima, Simonetta deve finire il suo lavoro. Quello al numero 2 è un grande complesso residenziale signorile, disegnato negli anni Trenta dall’architetto, Cesare Valle, rimasto poi inquilino del grande stabile composto da sei palazzine, dove diversi portieri, tra cui Pietro Vanacore, detto Pierino, responsabile della scala B ed egli stesso residente insieme alla moglie, vigilano.
Quel pomeriggio la ragazza non risponde all’ufficio e né la famiglia né gli amici riescono a mettersi in contatto con lei, sino alla macabra scoperta: Simonetta viene trovata riversa sul pavimento in in un lago di sangue, attinta da decine e decine di coltellate. È stata uccisa con rabbia, presenta ferite sul volto, sull’addome, sui seni.
È stata colpita con un’arma appuntita, verosimilmente, un tagliacarte che però non viene ritrovato. Appare evidente che chiunque fosse, sapeva come muoversi in quell’ambiente. Ha ripulito, portato via le chiavi di Simonetta, ma ha dimenticato tracce di sangue sul telefono e la maniglia della porta, dove la scientifica preleva i campioni per estrarre il DNA.
Il risultato è sorprendente, ve ne sono due: quello del killer e di un “pulitore”. Alcuni vestiti di Simonetta sono stati portati via, dalla borsetta invece sono state prelevate le chiavi e utilizzate per chiudere l’appartamento. In tal modo, l’omicida, avrebbe voluto suggerire di essere entrato dalla porta aperta da Simonetta e non con chiavi proprie.
Particolari che orientano le indagini all’interno del prestigioso edificio: il mostro è lì. Ma per affinare la rosa dei sospetti occorre confrontare il Dna prelevato dal sangue sulla porta con quello di alcuni sospettati: 29 persone vengono scagionate. Tra queste, il portiere Pietrino Vanacore, da subito sotto la lente degli inquirenti perché, nell’arco temporale in cui si colloca l’omicidio, dalle 17.30 alle 18.30, non era con gli altri portieri giù nel cortile.
Dopo 26 giorni in carcere, Vanacore viene rilasciato per mancanza di prove. Si passa poi ad un’altra pista: quella del giovane Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare, che per coincidenza abita qualche piano più in alto dell’appartamento dove è andato in scena il delitto e contro il quale ci sarebbe una testimonianza di un austriaco, tale Roland Voller, che riferisce che il ragazzo sarebbe stato visto sporco di sangue proprio la sera del delitto, presumibilmente dopo aver ucciso Simonetta.
Tuttavia il testimone, sul quale pesa una fama di informatore poco attendibile della polizia di Roma, viene etichettato come non credibile. Il sospettato numero uno, quindi, diventa Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta. A carico del giovane vi è un alibi labile, fornito da sua madre, la presenza del DNA sul corpo di Simonetta e un movente, rappresentato dal rapporto conflittuale tra i due. Per Raniero Busco l’aula del tribunale si apre nel 2009 , ben 19 anni dopo i fatti, quando il pubblico ministero avanza l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà contro di lui.
Ci vorrà un anno perché venga a chiamato a testimoniare Pietrino Vanacore, il portiere. Prima che possa salire sul banco dei testimoni, Vanacore, però, viene trovato annegato non lontano dalla località in cui viveva, lasciando scritto un biglietto “Vent’anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”.
Secondo il legale di Raniero Busco: “La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata. E sicuramente lui non se l’è sentita di testimoniare. Lui ha vissuto con rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché lui fosse l’autore dell’omicidio, ma perché sapeva chi fosse il vero colpevole. Evidentemente, però, non poteva parlare neanche a distanza di anni. Non se l’è sentita, insomma, di affrontare i giudici, gli avvocati e la testimonianza in aula”.
Raniero Busco, unico rinviato a giudizio, viene dapprima condannato in primo grado a 24 anni di reclusione e poi assolto in sede di appello per non aver commesso il fatto, assoluzione poi confermata sino al terzo grado di giudizio nel 2014. Le tracce di DNA, pur trovate sul corpo di Simonetta, non sono state considerata una prova certa ed attendibile, compatibili con residui che avrebbero potuto resistere a un lavaggio blando della biancheria (la madre di Simonetta dichiarò di lavare soprattutto a mano con sapone da bucato), mentre il morso sul seno si rivela essere un livido di altro tipo. Viene inoltre confermato l’alibi di Busco, che si trovava al lavoro.
Ora però, nella relazione della Commissione parlamentare Antimafia, trasmessa alla Procura della Repubblica di Roma nei mesi scorsi, vengono indicati alcuni dettagli inediti da cui ripartire per cercare la verità. Il primo elemento è una macchia di sangue di gruppo A positivo. Venne repertata dalla Polizia sulla maniglia di una porta, ma non fu mai presa in considerazione da inquirenti e investigatori.
Apparterrebbe a un soggetto fino ad ora ignoto, che non ha trovato corrispondenza e compatibilità nemmeno con i sospettati che sono stati indagati nel corso degli anni. Dubbi, inoltre, anche sull’arma del delitto. Potrebbe non essere un tagliacarte, ma un lama più lunga ed appuntita come uno spadino da uniforme. Insomma, si riparte da zero nel mistero dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. Una lista di sospettati, l’ipotesi serial killer, il presunto coinvolgimento dei servizi segreti e della banda della Magliana, l’omertà ed i depistaggi per coprire il vero autore del delitto.
Quello che è certo è che, dopo trentatrè anni di indagini e denegata giustizia, di Simonetta Cesaroni, la bella segretaria romana assalita nel suo ufficio, restano solo diari e lettere. Pagine che parlano della sua ingenuità, dei suoi sogni, delle sue speranze e di quell’amore che non incontrerà mai, strappata alla vita ed al futuro nel fiore della sua giovinezza.
In copertina immagine di Pubblico Dominio