Il reato e le sue vittime

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di Michele Bartolo

Di recente un giudice del Tribunale di Firenze ha adottato un provvedimento di portata potenzialmente innovativa e rivoluzionaria. Mi riferisco alla remissione degli atti alla Corte Costituzionale in ordine alle previsioni contenute nell’articolo 529 del Codice di procedura penale. Nello specifico, il Giudice di merito ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di tale norma nella parte in cui non prevede, per i procedimenti relativi a reati colposi, la possibilità di emettere sentenza di non doversi procedere, allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto, cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso.

Si evoca, quindi, la sussistenza di una cd. pena naturale, che dovrebbe prendere il posto della pena emessa dal Giudice sulla base del codice, cosi come noi siamo abituati a conoscerla ogniqualvolta un cittadino si sia reso responsabile di un reato.

Il caso di specie riguarda un datore di lavoro accusato di omicidio colposo per la morte del nipote, operaio deceduto a seguito della rovinosa caduta da un tetto. Il giudice della prima sezione penale del Tribunale di Firenze, Franco Attinà, evidenzia che il datore di lavoro, a proposito della condotta assunta, ha già patito una sofferenza morale proporzionata alla gravità del suo reato, con la conseguenza che una ulteriore pena inflitta con la sentenza di condanna sarebbe sproporzionata ed ingiustificata. Insomma, argomenta il magistrato, la persona accusata di un reato grave ha già sofferto.

Di qui la considerazione che la sussistenza di una pena naturale dovrebbe sostituire del tutto la pena codicistica. Vedremo come si pronuncerà la Corte Costituzionale. Indubbiamente, è apprezzabile e sicuramente condivisibile l’operato di un Giudice che non sia un asettico ed imperturbabile operatore della Giustizia, ma senta la esigenza di calarsi nel mondo reale, comprendendo quindi che i crimini o gli errori sono commessi da essere umani, portatori, come tali, di sentimenti, dubbi, emozioni, rimpianti. Uscire dalla forma e iniziare a considerare la sostanza, la fattispecie concreta sottoposta al proprio esame, rende lo stesso faticoso lavoro del giudicare più umano e il Giudice più vicino al cittadino.

Il magistrato, nelle ventincinque pagine della sua ordinanza, spiega che “siamo nell’ambito di uno dei casi più importanti, forse il più rilevante, di poena naturalis, dovendosi intendere con tale espressione il male – di carattere fisico, morale o economico – che l’agente subisca per effetto della sua stessa condotta illecita (male che egli si autoinfligge o che gli viene inflitto da terzi, al di fuori della reazione sanzionatoria dell’ordinamento, in ragione della sua condotta)”. Insomma, l’ipotesi è quella in cui in cui l’autore del reato è anch’egli vittima, direttamente o indirettamente, del reato stesso. Il magistrato richiama, tra gli altri, i casi della madre condannata per omicidio colposo in relazione alla morte per annegamento del figlio minore, su cui aveva omesso la vigilanza, e quello del nipote condannato per omicidio colposo in relazione alla morte dello zio, cagionata nel corso dei lavori di abbattimento di un albero.

Tutti casi – commenta il giudice della prima sezione del Tribunale di Firenze – che hanno in comune la tragicità della vicenda, nell’ambito della quale l’autore del reato ha già patito una sofferenza morale, in relazione alla morte del congiunto, tale da rendere sproporzionata e inutilmente afflittiva la risposta sanzionatoria penale in danno di persone già (ben più) gravemente segnate dall’evento letale. Situazioni a fronte delle quali, tuttavia, l’ordinamento non contempla alcuna possibile rilevanza della “pena naturale”, se non nei limiti generali del possibile riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche o nell’ambito della commisurazione giudiziale della pena”. In buona sostanza, il reato c’è dice il giudice, ma le vittime sono due, sia chi ha subito l’azione incriminata, sia chi l’ha commessa.

Si sofferma, cioè,  sul rapporto di consanguineità con la persona deceduta e si pone la domanda se astenersi o meno dal comminare una pena, così come è stabilito per legge. L’ordinanza di Firenze, si ripete ancora una volta,  è molto innovativa, nel senso che fino ad oggi nessuno aveva mai preso in esame la pena naturale, in questo caso la sofferenza. Il Giudice, quindi, non solo entra nel mondo delle emozioni e del dolore, ma invoca la facoltà di astenersi dal comminare una pena. Un Giudice che si discosta dall’ essere un semplice esecutore di una Giustizia già scritta, ma vuole lui stesso essere portatore della vera Giustizia, quella del caso concreto sottoposto alla sua valutazione.

 

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