di Michele Bartolo-
La storia di una bambina inglese, Indi Gregory, è diventata un caso legale di grande risonanza mediatica, oltre che un caso clinico che umanamente interroga sul senso dignitoso della vita nonché sulla volontà e sulla responsabilità della sua fine.
Purtroppo nella notte tra il 12 ed il 13 novembre 2023 il caso legale si è concluso, insieme alla sua vita.
Ma chi era Indi Gregory? Una bambina di soli otto mesi nata con una malattia rara incurabile, la sindrome da deplezione del Dna mitocondriale (MDS). Identificata per la prima volta nel 2013 dai ricercatori italiani in collaborazione con una équipe israelo-palestinese e che, nel caso della sfortunata bambina, si è presentata nella forma più severa, encefalomiopatica, che colpisce contemporaneamente le cellule dell’intestino e i neuroni del cervello.
Si tratta di un disordine genetico recessivo, che colpisce i tessuti degli organi principali. In buona sostanza, i giudici inglesi hanno considerato legittima la posizione dei medici del Queen Medical Center di Nottingham, uno dei migliori ospedali pediatrici del mondo, che l’hanno avuta in cura per otto mesi, dal giorno della sua nascita, secondo i quali continuare a darle sostegno era accanimento terapeutico e le cure palliative le avrebbero causato solo dolore.
Pertanto, come poi accaduto, i sanitari sono stati autorizzati dai giudici a staccare la spina, nonostante la ferma opposizione dei genitori che avevano presentato istanze di appello.
Il caso di Indi Gregory e il suo diritto alle cure ed alla vita, nonché la tutela della sua dignità come persona, si sono imposti anche come un rilevante caso di dibattito giuridico ed etico, al di là della umana tragedia vissuta in prima persona dalla bambina e dalla famiglia. Difatti, per impedire il distacco dei supporti vitali che la tenevano in vita e al fine di sensibilizzare le autorità giudiziarie inglesi, il Consiglio dei Ministri aveva addirittura concesso ad Indi la cittadinanza italiana con un provvedimento urgente per facilitare l’iter giuridico e burocratico per il trasferimento in Italia e farla così accedere al protocollo sanitario di un ospedale pediatrico italiano, il Bambin Gesù di Roma, garantendole cure palliative sino alla fine naturale, senza tuttavia staccare la spina.
Già da questo punto di vista c’erano i presupposti per un conflitto di giurisdizione, perché la Gran Bretagna è il Paese che ha dato la nascita ad Indi, mentre l’Italia le concedeva la cittadinanza.
Due articoli della Convenzione dell’Aja, il 9 e il 32, parlano proprio di questo, di favorire la collaborazione tra le autorità di due Stati che abbiano un legame con il minore.
Tuttavia, se la vitalità, come stabilisce l’ordinamento giuridico, è l’idoneità fisica alla vita, Indi allora non aveva, per quanto possa essere crudele ed inumano dirlo, né vitalità né idoneità.
Se fosse stata una bambina italiana, il nostro diritto civile avrebbe riconosciuto al soggetto appena nato una capacità giuridica non essendo la vitalità un presupposto necessario per la sua acquisizione. Se fosse nata in Italia, Indi avrebbe avuto la capacità di essere titolare di diritti della personalità, oltre a maturare pienamente il diritto alla vita, a prescindere dalla sua vitalità.
Ma dal momento che Indi per nascita era inglese e le sue condizioni erano clinicamente incompatibili con la vita, i giudici inglesi hanno sentenziato, al di là delle ingerenze dell’Italia, che sussistevano inequivocabilmente le ragioni giuridiche per porre fine alla sua vita, valutando l’interesse superiore della bambina.
Nessuno, nemmeno un padre e una madre, secondo l’ordinamento inglese, possono richiedere o pretendere di continuare un trattamento considerato non proporzionato dai professionisti che agiscono in scienza e coscienza.
In realtà, secondo quanto ci dice la scienza, Indi sarebbe morta poche ore dopo la nascita, se la natura avesse fatto il suo corso in un altro luogo del mondo o in altro tempo. Invece Indi ha vissuto una breve vita nelle mani dei medici, senza mai lasciare l’ospedale e senza mai tornare a casa come fanno generalmente i neonati. E ha concluso i suoi giorni contesa tra due culture, quella anglosassone e quella italiana, con diversi ordinamenti giuridici.
Sicuramente gli articoli 2, 3 e 32 della nostra Costituzione sanciscono il fondamento del diritto alla vita e della tutela della dignità umana. Seppur non sia stato ancora universalmente stabilito a chi spetta l’ultima parola in questi drammatici casi umani – se ai familiari, ai sanitari o allo Stato – occorre riconoscere tuttavia che davvero non si può vivere, come in questo caso, se sono presenti geni nucleari difettosi che impediscono la funzionalità di organi vitali come i muscoli, il fegato e l’intestino, il cuore e il cervello.
Ciò posto, era giusto interrompere le cure e le terapie salvavita che le stavano fornendo? Queste ultime rientrano nel concetto di accanimento terapeutico? Alcune vite affette da gravi disabilità possono essere oggettivamente considerate non più degne di essere vissute?
A mio sommesso avviso nessuna patologia, nessuna deficienza, nessun dolore potrà mai intaccare la dignità di una persona, perché quest’ultima vale per chi è, non per come è.
Se la vita di Indi, come quelle di Charlie, Alfie, Archie, non sono più degne di essere vissute e ogni tentativo di tenere in vita questi pazienti è accanimento terapeutico, perché quelle dei pazienti oncologici terminali dovrebbero sfuggire ad analogo destino? E i malati di Alzheimer? I disabili mentali? I malati affetti da SLA? Le persone Down? Tutte condizioni cliniche severe, ad oggi inguaribili.
La platea di possibili condannati a morte, perché soggetti che non raggiungono i requisiti minimi per vivere una vita qualitativamente apprezzabile, si allarga a dismisura. E inoltre: chi decide quali sono i parametri che permettono di accedere a terapie salvavita?
Anche il caso Indi ci ha ricordato che, pur tra i tanti difetti, l’ordinamento italiano rimane una grande eccellenza a livello planetario perchè la sacralità della vita è ancora un valore indiscusso.
In conclusione: se la nostra esistenza rimane un mistero, per la vita è sempre giusto lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza