di Michele Bartolo-
Un altro caso irrisolto di cronaca nera, un’altra vicenda giudiziaria che ha portato a un nulla di fatto. Con qualche caratteristica in più: uno o più assassini a piede libero mentre l’unico imputato, arrestato e poi scagionato, non può essere più processato, anche a fronte di nuovi elementi probatori, perché già assolto con formula piena.
Non è un film o la storia romanzata raccontata da un libro, ma una storia vera accaduta a Napoli nella notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1975, scoperta solo il successivo 8 novembre: la strage di via Michelangelo da Caravaggio, dal nome appunto della strada dove viveva la famiglia trucidata.
Sono passati ormai 48 anni da quel triplice omicidio irrisolto, avvenuto nel quartiere Fuorigrotta di Napoli, senza che siano stati dissipati molti dubbi sull’intero accaduto, compreso il movente che abbia scatenato tanta ferocia.
Resta solo una certezza: Domenico Santangelo, ex capitano della marina mercantile, la sua seconda moglie Gemma Cenname e Angela Santangelo, figlia diciannovenne avuta dal primo matrimonio dell’uomo, furono brutalmente ammazzati da un omicida spietato che non risparmiò nemmeno il cane di famiglia.
Dopo il sopralluogo compiuto dalla polizia sulla scena dal crimine, emerse che il cane era stato soffocato, mentre l’uomo e le due donne erano stati sgozzati con un coltello da cucina dopo essere stati colpiti alla testa con un oggetto mai ritrovato.
Assente l’arma, quindi, ma assente anche il movente.
Dapprima si fece strada l’ipotesi di un omicidio scaturito da un’esplosione di rabbia da parte dell’assassino, che poi si sarebbe sbarazzato anche degli scomodi testimoni. Ma non si escluse la pista di una vendetta maturata negli anni. Gesto impulsivo, omicidio di impeto o assassinio premeditato?
Queste domande, dopo quasi cinquant’anni dal delitto, rimangono senza risposta. Unico imputato per la strage fu Domenico Zarrelli, nipote della seconda moglie di Santangelo e figlio del presidente di una Corte d’appello, che poi prenderà la laurea in Giurisprudenza dietro le sbarre.
Secondo l’accusa formulata dalla Procura, amante della bella vita e dedito al lusso, avrebbe ucciso per vendicarsi di un prestito negato dalla zia.
Arrestato nel 1976, condannato inizialmente all’ergastolo, fu assolto per insufficienza di prove dopo cinque anni ma, a seguito dell’annullamento da parte della Cassazione, il processo fu rifatto e terminò nuovamente con una sentenza di assoluzione, questa volta con formula piena, nel 1985.
Alla fine di questo lungo e tortuoso iter processuale, lo Stato Italiano, nel 2016, ha risarcito Zarrelli per danni morali con un milione e 400mila euro. Sicuramente le tecniche investigative di cinquant’anni orsono non erano quelle moderne e non riuscirono a risolvere l’enigma del delitto.
È avvilente, però, constatare come siano stati necessari anni di indagini e di processi, concentrati sulla responsabilità di un singolo individuo, carcerato per lungo tempo, per poi addivenire ad una duplice pronuncia di assoluzione, che giocoforza costringe lo Stato italiano a risarcire la vittima di ingiusta detenzione.
Un milione e 400 mila euro che si aggiungono, ovviamente, alle spese ed al tempo inutilmente impiegati per sostenere e proseguire le lunghe ed infruttuose indagini sul suo conto. Nel contempo, ovviamente, trascurando la praticabilità o attendibilità di piste investigative alternative.
Quando ci si innamora di una ipotesi accusatoria, pensando poi di essere arrivati alla verità, nel momento in cui il castello costruito crolla, ci si trova a dover ripartire da zero, nella drammatica consapevolezza, però, che sono passati decenni dal fatto criminoso. In tale contesto, riaprire le indagini con prospettive concrete diventa sempre più difficile se non utopistico.
Tuttavia, deve dirsi che nel 2014, grazie alle avanzate e appunto moderne tecniche di investigazione scientifica, furono rinvenute tracce di Dna sui reperti ritrovati sulla scena del delitto e custoditi nei depositi del Tribunale di Napoli, nei sotterranei di Castel Capuano. Queste tracce avrebbero portato, secondo la nuova risultanza investigativa, sempre a Domenico Zarrelli. Tracce del suo Dna sarebbero state ritrovate su uno straccio da cucina insanguinato e su dei mozziconi di sigarette. Troppo tardi, però, per riaprire il processo.
Secondo il principio del giudicato, meglio conosciuto con il brocardo latino “ne bis in idem”, non si può processare una persona, assolta con sentenza definitiva, due volte per lo stesso reato.
Logica conseguenza è stata l’archiviazione del procedimento nel 2015.
Chi ha ucciso la famiglia Santangelo?
Probabilmente qualcuno che frequentava quella casa visto che, secondo la ricostruzione di quella notte, Domenico ha aperto la porta al suo assassino e lo ha fatto accomodare nello studio. Qualcuno di familiare, vista l’ora della visita, fissata dopo le 22.30, e di corpulento abbastanza da caricare i corpi senza vita. Ma i sospetti e gli indizi non hanno portato ad inchiodare il responsabile della strage.
Dopo cinquanta anni, quindi, la strage di via Caravaggio resta impunita, la macchina della Giustizia sconfitta e l’assassino o gli assassini forse ancora vivi e liberi.