Per quanto non in maniera massiccia ma oggi – come anticipato già ieri dal Cremlino – Mosca ha dato vita a ciò che ha definito la fase due, che poi è, sotto certi aspetti, il vero obiettivo che la Russia ha avuto in mente sin dall’inizio: legittimarsi nella zona a sudest dell’Ucraina, nel Donbass, collegare le repubbliche separatiste di Donesk e Luhansk con la Crimea tramite Mariupol e giungere magari fino a quella remota zona filorussa della Moldavia che è la Transnistria, che Mosca ritiene sua proprietà.
Questo lo schema geopolitico.
Da un punto di vista militare, oggi si è tornato a sparare, a mietere vittime e ad alzare polvere: sei sono i missili che Putin ha ordinato che venissero spediti verso l’Ucraina e, in particolare, verso Odessa, come detto città strategica perché aperta verso il mare e “industrializzata”.
Tutto ciò è avvenuto nel pomeriggio italiano. Si è pensato – e lo hanno pensato in molti – che Putin stesse bluffando nuovamente come ha fatto spesso in questi ormai quasi due mesi di guerra.
Invece si è passati dalle parole ai fatti e ne ha preso atto anche Volodymyr Zelensky.
Il presidente ucraino ha detto chiaro e tondo che adesso sì, vuole incontrare Putin; nei giorni scorsi, le difficoltà moscovite avevano fatto credere che la situazione potesse volgere per il meglio ed anche il tono di Zelensky s’era fatto più assertivo, con Putin ma, soprattutto, con i leader europei.
La marcia indietro di oggi, almeno nei toni, la dice lunga su quanto sia ondivago il vento di questa guerra.
Cosa può significare tutto ciò? Tutto o niente.
Non significa che questo fosse il reale intento di Putin; era, se così vogliamo definirlo, il minimo, l’indispensabile, l’essenziale. Radicarsi dove Mosca già c’era, nella pratica.
In principio, s’è pensato che Kiev sarebbe capitolata in pochi giorni. Non l’ha fatto.
In principio, s’è pensato che Zelensky avrebbe alzato bandiera bianca non appena il primo carrarmato russo fosse entrato nelle sue città. Non l’ha fatto.
Poi abbiamo iniziato a familiarizzare con l’arretratezza russa che è parsa quasi quella sovietica. L’obsolescenza dei suoi mezzi, le difficoltà a superare le orgogliose resistenze ucraine, la poca organizzazione militare. Tutto ciò ha favorito l’Ucraina, che ha avuto modo e tempo per riorganizzarsi. E c’è parso financo che sarebbe stato possibile che Kiev rispedisse l’esercito di Putin indietro come se nulla fosse accaduto.
Nemmeno questo è vero; nemmeno questo poteva essere vero.
Oggi Putin torna a pensare al Donbass, alla Crimea e a quel che resta di un certo sciovinismo sovietico che, evidentemente, resiste e persiste in più di qualche zona.
Cosa succederà adesso? Nessuno può dirlo.
Certamente la città di Mariupol vede ulteriormente crescere il proprio peso specifico, la propria importanza strategica.
Se, alla fine, Putin l’avrà conquistata, allora sarà possibile pensare ad una divisione in due dell’Ucraina, ad est e a ovest del fiume Dnipro; se, invece, non dovesse farcela, sarà più difficile anche tenere buoni gli oligarchi e gli alti funzionari che, colpiti in ciò che li rende tali, i soldi, iniziano a borbottare la propria insofferenza.
La resistenza di questo 25 aprile dovrà essere la resistenza di Mariupol, che è anche quella della nostra civiltà.