di Pierre De Filippo-
Le notizie si susseguono ad una velocità tale che è davvero difficile tenerne una precisa cronologia, figurarsi capire davvero cosa stia succedendo.
Nel giro di qualche giorno, il conflitto israelo-palestinese – che dal 7 ottobre 2023 è tornato centrale negli scacchieri politici di tutto il mondo – si è espanso a macchia d’olio in tutta la regione, col rischio realistico di una guerra aperta e imprevedibile.
Nella notte tra sabato 28 e domenica 29 luglio, un missile esploso dalla milizia sciita libanese Hezbollah ha colpito un campetto di calcio a Majdal Shams, cittadina drusa sulle alture del Golan, uccidendo dodici ragazzini.
La reazione israeliana non si è fatta attendere e, nel volgere di due giorni, ha prima ucciso il numero due di Hezbollah, Fuad Shukr, e poi il leader di Hamas Ismail Haniyeh. La particolarità? Shukr è stato ucciso a Beirut e Haniyeh a Teheran, dove si trovava per l’insediamento del nuovo presidente iraniano Pezeshkian. Il messaggio del governo di Netanyahu è chiaro: possiamo colpirvi dove vogliamo, anche in casa vostra.
Questa la cronaca che, come sempre, non basta a spiegare i fatti. Ed allora conviene fare un passo indietro per cercare di capire innanzitutto come e perché si è arrivati all’aggressione del 7 ottobre scorso, nella quale Hamas ha colpito un Israele sorpreso, uccidendo oltre mille persone e facendo prigionieri che sono ancora in mano ai sequestratori.
Nel luglio del 2015, dopo intensi negoziati, Usa e Iran (con Russia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito e Ue) stabiliscono di mettere per sempre da parte l’arma nucleare. Non andiamo d’accordo, è vero, ma evitiamo di mettere in pericolo l’esistenza di tutto il mondo, dicono.
L’accordo regge, è uno dei migliori risultati di politica estera di Barack Obama e della sua amministrazione. Fino al maggio del 2018, quando il nuovo Presidente Donald Trump decide unilateralmente di stracciarlo, portando l’America via con sé.
Apriti cielo a Teheran, che forse non aspettava altro.
Ma la politica estera, si sa, funziona spesso per eterogenesi dei fini e capita allora che l’odio anti iraniano di Trump si trasformi in una imprevista sponda per Israele. È la volontà di isolare il paese degli ayatollah a far nascere gli Accordi di Abramo, un processo di pacificazione (o, comunque, di normalizzazione dei rapporti) tra Israele e alcuni tra i più importanti player dell’area: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco.
Addirittura pare fossero iniziati dei primi accenni di dialogo con l’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman – che dell’Islam sunnita, quello maggioritario, è il cuore – seppur con estrema prudenza. Qualcosa di rivoluzionario per la regione.
E ancora, la ripresa del dialogo, dopo oltre dieci anni, tra l’Arabia sunnita e l’Iran sciita, le due grandi faglie della religione musulmana. E poi, il reintegro della Siria di Bashar al Assad (sciita) nella Lega Araba.
La faccio breve: in Medio Oriente, pur tra mille ambiguità e peripezie, la pace stava crescendo, silenziosa come una foresta, ma cresceva.
Ecco, forse, il perché del 7 ottobre, di quell’attacco cieco, indiscriminato e drammatico da parte di Hamas. Che, ricordiamolo, non è la Palestina ed è tante cose insieme. È un partito politico, una milizia, un importante riferimento religioso.
Haniyeh era il più importante riferimento politico, l’uomo seduto al tavolo dei negoziati. Ora chi lo sostituirà?
Ma forse l’obiettivo di Netanyahu era proprio questo: interrompere sine die i negoziati e cercare la “vittoria totale”.
Ora può succedere davvero di tutto. I bene informati dicono che, al netto delle formulazioni di rito da parte iraniana – che hanno già promesso il finimondo – probabilmente la reazione sarà più controllata. Hamas dovrà riorganizzarsi, così come gli Hezbollah.
Mentre Netanyahu sta seguendo alla lettera l’insegnamento di Golda Meir che dopo gli attentati a Monaco ’72 subiti dalla delegazione israeliana da parte di Settembre Nero redasse una lista, una lista nera di nemici. Da uccidere. Uno dopo l’altro.
Se così sarà, gli omicidi di Shukr e di Haniyeh sono solo i primi di un lungo elenco.