
di Giuseppe Esposito-
Come se non bastasse la tragedia ucraina, il mondo si è ritrovato, il 7 ottobre scorso, di fronte al deflagrare di un altro terribile focolaio di guerra. L’assalto dei militanti di Hamas in territorio israeliano è stato un atto di insopportabile barbarie e sintomo di un odio che cova da decenni tra due popoli costretti a convivere. Il raid spietato dei terroristi ha causato 1400 morti ed ha portato alla cattura di più di 200 ostaggi da parte dei miliziani. Le morti sono state orribilmente inflitte esasperando oltre ogni misura quelli che sono gli orrori di ogni guerra. Ma la crudeltà cui siamo costretti ad assistere è sintomo di qualcosa che va oltre ogni contrapposizione di natura politica ed è più profonda e radicata.
Anche l’attacco di Hamas e l’inizio delle ostilità tra Israele ed il terrorismo palestinese, hanno radici lontane, come quelle che hanno portato all’invasione russa dell’Ucraina. Radici che si sono abbeverate alle politiche errate del governo di Israele ed alle condizioni di miseria cui la popolazione palestinese è stata ridotta da decenni di occupazione illecita dei loro territori. Tutto ciò lasciava prevedere che prima o poi si sarebbe giunti di nuovo ad uno scontro cruento.
Dell’Ucraina e dei motivi endogeni di quel conflitto abbiamo già detto, ciò che vogliamo oggi esaminare è la genesi di questo nuovo conflitto in corso nella sventurata Palestina.
La presenza ebraica in quelle terre, nell’età moderna, è legata alla nascita del movimento sionista, che ebbe origine nell’Europa centrale ed orientale, sul finire del XIX e l’inizio del XX secolo.
Tra le idee alla base di quell’ideologia vie era ed ancora vi è la necessità di autodeterminazione del popolo ebraico ed il supporto ad uno Stato ebraico in quelle che sono chiamate Terre di Israele.
A dispetto del fatto che la presenza di ebrei in Palestina sia stata del tutto irrilevante a causa della diaspora avvenuta tra il secolo VIII ed il VI a.C.
A causa della dispersione del popolo di Israele quelle terre furono occupate da popolazioni arabe. Ma il movimento sionista favorì, a partire dall’inizio del secolo scorso un flusso migratorio di ebrei da tutto il mondo verso la Palestina, allora ottomana, con lo scopo di fondare il nuovo Yishev, ossia la nuova comunità ebraica nelle terre abbandonate più di un millennio prima. Un’aspirazione evidentemente antistorica.
Tuttavia, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il sionismo trovò largo appoggio da parte di molti paesi dell’Occidente. Il motivo di questo nuovo favore verso il movimento sionista è da ricercare nell’impatto che la scoperta dei lager nazisti ebbe sull’opinione pubblica e sui politici di tutto il mondo.
Tale ondata di indignazione contro i crimini nazisti a danno degli ebrei portò alla fine del mandato britannico sulla Palestina, durante il quale gli inglesi avevano cercato di scoraggiare i flussi di immigrati verso quelle terre. La situazione dell’epoca costituì il soggetto di un film memorabile, dal titolo “Exodus, diretto da Otto Preminger ed interpretato da attori del calibro di Paul Newman, Eve Marie Saint, Peter Lawford, Sal Mineo e tanti altri. Anche la colonna sonora del film ebbe un notevole successo presso il pubblico di ogni parte del mondo.
Ed anche il film contribuì a rafforzare l’appoggio alla nascita del nuovo Stato di Israele.
Si giunse così al 29 novembre 1947 in cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 181 che stabiliva la ripartizione del territorio palestinese tra ebrei ed arabi. Il 55% delle terre fu assegnato al nascente stato israeliano ed il restante 45% agli arabi.
La mossa, nonostante le intenzioni fossero buone si rivelò errata. Il nuovo stato ebraico risultò essere un corpo estraneo innestato in un tessuto da cui differiva per cultura, lingua, usi e tradizioni. Da subito esso determinò una reazione di rigetto da parte di tutti gli stati arabi. Pertanto il nuovo stato si trovò, fin dalla sua nascita, ad essere circondato da nemici.
Tuttavia, con l’appoggio degli Stati Uniti, paese da cui provenivano gran parte dei nuovi cittadini Israele compì rapidamente notevoli progressi in campo economico, scientifico e militare arrivando a disporre di uno degli eserciti più agguerriti e meglio armati del mondo.
Con tale strumento inflisse cocenti sconfitte a tutti i paesi arabi con cui entrò in conflitto, dall’Egitto, alla Siria, al Libano e all’Iraq.
Nel 1952 il Parlamento israeliano, la Knesset emanò la cosiddetta legge del ritorno in cui si stabiliva che qualunque ebreo, proveniente da qualsiasi altro paese avesse diritto di stabilirsi nel paese ed a riceverne la cittadinanza. Cosa che ha fatto si che gli arrivi da fuori siano continuati senza sosta ed ha spinto Israele ad occupare anche parti del territorio spettante ai palestinesi.
Negli stessi anni la società palestinese ha conosciuto un peggioramento molto spinto delle condizioni di vita, già alquanto disagiate in partenza.
L’economia palestinese è essenzialmente agricola ed è entrata in crisi anche a causa dell’occupazione di vaste porzioni di territorio da parte dei coloni israeliani e delle numerose guerre che hanno danneggiato gli agricoltori accrescendo la povertà e ponendo limiti al libero scambio delle merci.
Ulteriore danno all’economia della Palestina è stato provocato dalla costruzione della lunga barriera di confine, lunga più di 700 chilometri, la cui costruzione è iniziata nel 2002 e che ha eroso, in molte parti il territorio dei palestinesi. Il motivo ufficiale della costruzione era costituito dalla necessità di difendersi da attacchi terroristici, ma alla fine il muro ha finito per costituire un limite alla mobilità dei palestinesi. Esso è dotato di trincee e di porte elettroniche attraverso sono costretti a transitare i quasi 200.000 palestinesi che ogni giorno si recano a lavorare in Israele, costretti dalla povertà del paese ad affrontare ogni giorno una sorta di calvario. Gli operai palestinesi sono impiegati essenzialmente nei servizi, in agricoltura e nell’edilizia. A causa delle rigide procedure di controllo sono costretti, ogni giorno a levarsi dal letto alle tre del mattino, raggiungere il varco, assoggettarsi ad una lunga file ed infine a subire i controlli della polizia che adopera metodi talvolta brutali. Passata la barriera devono poi prendere un mezzo di trasporto per raggiungere il posto di lavoro.
Si tenga inoltre presente che, per poter lavorare, essi hanno bisogno di un permesso di lavoro, il cui rilascio è piuttosto oneroso. Dovrebbe essere a carico dei datori di lavoro che invece ne detraggono il costo dalla paga dei loro dipendenti. Anzi, per questo indispensabile documento, si è creato un mercato nero in cui esso è messo in vendita e, il più delle volte, finisce nelle mani di mediatori che esercitano un’attività assimilabile a quella che, nel nostro paese è definita caporalato. Spesso gli operai sono impiegati in nero e devono sottostare a condizioni di lavoro impossibili, pena la denuncia alle autorità come clandestini. Si è creato praticamente un sistema di tipo quasi schiavistico che sfrutta i lavoratori palestinesi sulle cui spalle i datori di lavoro lucrano notevoli guadagni.
In ogni caso, sia i palestinesi assunti che gli altri, sono assolutamente privi di diritti. La loro paga è circa la metà di quella corrisposta ai loro omologhi israeliani e la loro giornata tipo dura all’incirca 16 ore al giorno per 6 giorni a settimana. Alla fine, detratti i vari balzelli, la paga oraria risulta di poco superiore ai 3 euro. Cioè a fine mese ognuno di essi porta a casa tra i 1000 e i 1200 euro con cui deve mantenere la famiglia che, notoriamente è più numerosa di quelle occidentali ed annovera tra i 6 e gli 8 membri ognuna. Se simili condizioni sono accettate è solo a causa della enorme povertà e del bisogno di cui è affetta l’intera comunità palestinese.
Si pensi che in passato il leader sudafricano Nelson Mandela accusò Israele di praticare l’apartheid nei confronti della popolazione palestinese ed assimilò le condizioni degli abitanti di Gaza e della Cisgiordania a quelle dei neri al tempo del governo dei bianchi in Sud Africa.
Va ancora aggiunto che la comunità internazionale stanzia in aiuti per la Palestina numerosi fondi, ma essi sono intercettati dal governo israeliano con la scusa di doverli spendere per la sicurezza e la difesa dal terrorismo.
Appare perciò del tutto evidente che un sistema basato su simili ingiustizie non può durare a lungo ed è fisiologico che di tanto in tanto vi siano scoppi di ribellione ad una situazione che è umanamente insopportabile.
Una situazione che dura da decenni e su cui il cosiddetto Occidente ha deciso, da sempre di chiudere gli occhi e di ignorarla. In tal modo la soluzione del problema è divenuta sempre più difficile ed ora ci troviamo sull’orlo di una estensione del conflitto con conseguenze assai gravi. Una condizione che sommata a quella ucraina, passata momentaneamente in secondo piano, potrebbe innescare un conflitto dalle dimensioni inimmaginabili. Si aggiunga a ciò che il più potente alleato di Israele, ossia gli USA sembrano non riuscire più a controllare le azioni del governo israeliano che, capeggiato da vacillante Netanyahu, non pare più in condizioni di prendere decisioni equilibrate e rischia di ritrovarsi contro l’opinione pubblica mondiale. Infatti se barbara è stata l’aggressione di Hamas, la reazione israeliana che non tiene in alcun conto i danni alla popolazione civile palestinese e che vorrebbe indurre un esodo alla popolazione di Gaza, appare completamente fuori scala e non tiene neanche conto della necessità di salvare la vita agli ostaggi. In realtà dal punto di vista della battaglia della comunicazione Hamas sembra, per il momento avere la meglio.
Le speranze che si arrivi ad un cessate il fuoco e successivamente ad una ricomposizione del conflitto sono sempre più irrilevanti e non ci resta che sperare che il fuoco non si appicchi a tutta la regione e quindi al mondo intero. Pensavamo che la follia della guerra fosse retaggio del secolo breve ed invece ci troviamo davanti ad un pericolo la cui portata non riusciamo nemmeno a valutare. Che Dio abbia pietà di noi.
Fonti: Wikipedia, Il Fatto Quotidiano, Save the children, Contropiano, Dinamo Press, Francesca Albanese (Relatrice Speciale Onu sulla Situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi occupati).
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