
Diomede I, del casato napoletano dei Carafa, trascorse la propria giovinezza alla corte aragonese di Barcellona, ai tempi di Alfonso V d’Aragona. Nel 1442 seguì il re alla conquista di Napoli, strappata agli Angioini. Sotto il suo successore Ferrante d’Aragona divenne ministro ed ottenne il titolo di conte di Maddaloni. Fu a quei tempi tra gli uomini più potenti del Regno. Fu amante delle arti, gran collezionista di antichità provenienti dai primi rudimentali scavi nei siti archeologici della Campania. La sua opera “De regi et boni principis officio”, servì da modello per le opere successive di Bartolomeo Sacchi e di Giovanni Pontano. Al culmine del successo decise di edificare una sua degna residenza e la scelta cadde su un insieme di proprietà che la famiglia possedeva nel centro della città, nel sedile di Nido.
Se, ai primi di gennaio del 1466, un viaggiatore si fosse spinto lungo la strada sedile di Nido (l’attuale via San Biagio dei Librai) avrebbe assistito ad uno spettacolo inconsueto. Un nutrito gruppo dei personaggi più eminenti della città, rivestiti dei loro splendidi paludamenti, facevano la fila per entrare nell’androne di un palazzo dal ricco portale ligneo finemente scolpito. Era il nuovo palazzo dell’Illustrissimo Signor Diomede Carafa, potente conte di Maddaloni che quel giorno aveva fissato l’inaugurazione della sua nuova magione, celebrata con un rito religioso da celebrarsi su un altare innalzato al centro del cortile del palazzo ed officiata dall’Arcivescovo di Napoli, Oliviero Carafa, nipote del padrone di casa.
Tra la folla in attesa un osservatore avrebbe potuto riconoscere alcuni tra i personaggi più eminenti della Napoli di allora: Francesco Carafa, fratello del conte e Castellano della Torre Quarta (Torre del Greco) e Capitano di Resina, Antonio Beccadelli, Antonello Petrucci e Giovanni Pontano. Mancava il re Ferrante, che sarebbe però passato da quel palazzo in altre occasioni. In memoria di quel passaggio il conte avrebbe poi eretto al centro del cortile una colonnina commemorativa con alla sommità una statua equestre del re, scolpita da Donatello. Tuttavia quella che si era radunata davanti al portale magnifico de palazzo era davvero la creme della Napoli aragonese.
Il deflusso degli invitati era lento poiché ognuno si attardava a leggere l’iscrizione posta sul fregio che correva lungo la facciata ad una altezza di tre metri da terra e si fermava ad ammirare lo splendido portale adorno di statue e di bassorilievi.
I ragazzini del quartiere sgattaiolavano tra le gambe degli illustri convenuti, attratti anche dal profumo di cibo che veniva fuori dalle finestre delle cucine poste a pianterreno. Più tardi i servi avrebbero distribuito gli avanzi agli abitanti delle povere case sparse nei vicoli, nei bassi e che fin dal mattino avevano cominciato a sognare sulla scia di quel profumo paradisiaco che era giunto fino a loro.
Grazie alla sua ricchezza il conte di Maddaloni avrebbe potuto scegliere per la sua nuova magione un luogo più ampio e salubre, posto in periferia, ma le ragioni della sua scelta erano riportate nell’iscrizione posta sulla base della colonnina che reggeva la loggia del primo piano. Su di essa si leggeva:
“HAS COMES INSIGNIS DIOMEDES CONDIDIT AEDES CARAFA IN LAUDEM REGIS PATRIAQUE DECOREM
EST FORTE LOCUS MAGIS APTUS ET AMPLIUS IN URBE SIT SED AB AGNATIS DISCEDERE TURPE PUTAVIT”
Tra la fine del 1479 ed il marzo dell’anno successivo fu ospite del palazzo Lorenzo il Magnifico che era venuto a chiedere al re Ferrante di uscire dalla Lega di papa Sisto IV e di lasciare abbandonare l’assedio di Firenze. Il Magnifico era amico del conte ed in memoria della sua visita gli fece dono di una enorme testa di cavallo scolpita da Donatello. Ancor oggi si può ammirare la copia in terracotta di quella testa, poiché, a partire dal 1809, l’originale in bronzo è conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Il palazzo il cui attuale numero civico è il 122 di via San Biagio dei Librai risulta dall’assemblaggio di corpi di fabbrica preesistenti. Tuttavia gli architetti del Carafa riuscirono ad armonizzarli e a renderli mirabilmente omogenei grazie all’utilizzo di un bugnato di tufo giallo e grigio, ispirato all’opus isodomum vitruviano. Idea già adottata in palazzo Penne e nella cappella Pappacoda precedenti al palazzo Carafa, ma lì, la policromia utilizzata ha reso il richiamo all’antico più esplicito.
Il palazzo è una delle testimonianze più importanti del Quattrocento napoletano e merita di certo una visita. Del resto una passeggiata attraverso gli antichi decumani di Napoli riserva sempre molte sorprese e l’occasione va colta assolutamente.