
-di Giuseppe Esposito-
Negli anni compresi tra il 1825 ed il 1835, nel Regno delle Due Sicilie si cominciò a guardare cosa la tecnologia offrisse all’estero nei più diversi campi. Gli imprenditori più lungimiranti ed intraprendenti, cominciarono ad acquistare oltralpe i macchinari necessari ad avviare le loro imprese sul suolo nazionale. La cosa, tuttavia, presentava due ordini di inconvenienti: da un lato occorreva assumere tecnici stranieri per l’addestramento della manodopera locale e gli stipendi da corrispondere erano notevolmente elevati; in secondo luogo le frequenti rotture di parti di macchine richiedevano lunghi tempi di attesa coi relativi fermi di produzione e quindi incidevano molto sui costi di gestione.
Vi furono allora alcuni che decisero di impiantare in loco fabbriche per la produzione di macchinari e pezzi di ricambio necessari agli imprenditori. Tra i primi ad aprire una fabbrica di questo tipo vi fu il titolare di una fabbrica di pezze presso Sora, un certo Lorenzo Zino che si associò con un certo François Henry, professore di meccanica, trasferitosi da Parigi a Napoli. Il primo opificio, denominato Zino & Henry, fu installato all’interno della grotte di Capodimonte a Napoli.
In breve tempo la capitale divenne il centro di riferimento dell’industria metalmeccanica. Il progresso che conobbe l’industria nazionale napoletano fu rapido ed intenso, infatti all’Esposizione Universale di Parigi del 1856, il Regno otre ad essere il più grande d’Italia risultò essere anche il più industrializzato, terzo in Europa dopo Inghilterra e Francia.
La rivoluzione industriale interessò a fondo anche l’agro sarnese – nocerino. La cittadina sul fiume omonimo divenne uno dei centri più importanti per l’industria tessile.
La sua carta vincente fu l’aver concentrato in loco l’intera filiera industriale, dalla produzione della materia prima alla trasformazione e alla commercializzazione. A Sarno sorsero alcune delle più grandi filande Regno, come la D’Andrea e la Buchy & Strangman, che producevano manufatti di cotone, lino, canapa e lana. A Sarno e dintorni tuttavia sorsero anche molte e importanti aziende del settore agroalimentare. Uno dei primi stabilimenti di questo tipo fu lo zuccherificio di Sarno.
Esso fu realizzato al centro della cittadina, leggermente a valle dell’attuale piazza del Mercato. Tale posizione permetteva di sfruttare direttamente le acque del Rio Palazzo, uno dei cinque rami in cui è diviso il fiume Sarno, quando giunge nella valle omonima.
Nel 1833, il proprietario di quei terreni, il principe Ottajano de’Medci cedette il corso d’acqua alla Società Industriale Partenopea, al fine di realizzare uno stabilimento per la raffinazione della barbabietola. Il progetto e la realizzazione dell’opificio furono affidati all’ingegner Luigi Giura, uno dei tecnici più preparati e più noti del tempo. Lo stesso che aveva realizzato il ponte in ferro sul Garigliano. È interessante rileggere quanto scrisse in proposito Francesco Mastriani nel 1868: “Questa industria che ottenne sì prosperi e lieti successi in Francia e nel Belgio, fu tentata appo noi (…) Un capitale sociale di circa 400.000 ducati fu messo a disposizione della nuova industria. Furono fatti venire dalla Francia uomini esperti nei tecnicismi della fabbricazione, affatto nuova appo noi. Le macchine furono al più fatte venire di Francia; altre furino costrutte nella fonderia dei signori Zino e Henry ai Granili. Semi di barbabietole furono fatti venire dalla Slesia e da altri paesi ove meglio questa pianta attecchisce e migliori frutti produce. Abili e onesti amministratori furono assegnati all’impresa; intelligenti impiegati vi furono allogati; tutto si fece insomma perché l’ardita industria, la prima di questo genere stabilita in Italia, desse prosperi risultati.”
I lavori per la costruzione dell’edificio iniziarono nel 1838 e furono portati a termine abbastanza celermente. La fabbrica per il lato corto fu costruita direttamente sulla riva del Rio Palazzo, in modo da poterne sfruttare più facilmente l’energia. Il lato maggiore era invece perpendicolare al fiume. L’edificio aveva tre piani ed un sottotetto adibito a deposito delle barbabietole. L’esterno aveva uno stile semplice e spoglio che ricordava quello delle masserie napoletane. La facciata su via Roma aveva un corpo centrale avanzato rispetto a due ali laterali più piccole. Su ognuno dei livelli si aprivano 17 finestre rettangolari con infissi in legno e davanzale di pietra. Quelle della facciata posteriore erano protette da grate di ferro.
L’edificio dopo la cessazione dell’attività fu utilizzato come scuola. Danneggiato dal sisma del 1980, è stato di recente restaurato. La facciata è stata dipinta di un rosa antico mentre i pilastri, le paraste ed il cornicione finale sono di un colore giallo.