Il racconto della domenica di Giuseppe Esposito

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Ha da passà ‘a nuttata- di Giuseppe Esposito-

Tutto cominciò pochi giorni dopo la fine delle vacanze di Natale. Gli italiani erano ancora appesantiti dai cenoni e dalle libagioni cui tutti avevano voluto indulgere. E tutti ugualmente si sentivano in colpa con se stessi per non aver saputo resistere alle tentazioni delle tavole imbandite. Ogni volta erano andati ripetendosi, le parole degli antichi padri: semel in anno … semel in anno, ma sapevano di mentire.  Ed infatti ci erano ricaduti non semel ma numerose volte.

Mentre dunque tutti erano alle prese coi loro sensi di colpa ecco che sugli schermi televisivi cominciano ad apparire immagini di una lontana e, fino ad allora, sconosciuta città della Cina centrale: Wuhan. I notiziari informano gli spettatori di alcune morti sospette avvenute laggiù a causa di una polmonite atipica ed attribuibile ad un nuovo virus dal nome anche un po’ buffo, il coronavirus. Poi si apprende che tale agente patogeno è parente di un altro coronavirus, quello della SARS, epidemia che nel 2002 – 2003 aveva mietuto nel mondo più di 800 vittime. Allora l’attenzione verso quelle notizie da un paese, apparentemente, remoto comincia a crescere. Ma nel proprio intimo ognuno di noi continuava a ritenere la cosa come notizia proveniente da un paese esotico. In fondo la Cina è uno strano paese i cui abitanti hanno curiose abitudini alimentari: mangiano le cose più impensate, dai nidi di rondine alla carne di cane, dai serpenti ai pipistrelli e dunque ognuno di noi riteneva fosse quasi normale che di tanto in tanto, laggiù, scoppiasse una qualche epidemia.

Ma vuoi che tali fenomeni possano mai giungere ad interessare anche noi? Ci si diceva. Ma le notizie da quella remota e sconosciuta città diventavano sempre più inquietanti. I contagi crescevano con andamento esponenziale e per le strade si vedeva la popolazione andare in giro col viso coperto da mascherine bianche.

Poi le strade di Wuhan cominciarono spopolarsi ed una sorta di moderni monatti, rivestiti di bianco, dalla testa ai piedi tiravano fuori dalla loro casa, con la forza, cittadini solo sospettati di essere stati infettati da quel nuovo subdolo virus. Poi il governo cinese diffuse l’annuncio della costruzione di due nuovi ospedali da più di mille posti ciascuno in soli dieci giorni. Decisione che denotava la gravità del caso.

Nel mentre il  contagio si allargava e le vittime presero a raggiungere numeri a più cifre, nonostante che la popolazione fosse stata confinata nelle proprie case. L’epidemia, iniziata ai primi di gennaio, ad inizio marzo aveva provocato più di 80000 contagi e 3169 decessi. Ma a svegliare gli italiani dal loro torpore era giunta nel frattempo la notizia dei primi casi di coronavirus nel nostro paese: il 29 gennaio si apprende che allo Spallanzani di Roma è stata ricoverata una coppia di turisti cinesi che dopo gli accertamenti è risultata affetta da coronavirus. Tuttavia dagli schermi televisivi le autorità invitano alla calma, la situazione, a loro dire, è sotto controllo. Ma la situazione reale evolverà in senso negativo. I focolai sembrano in un primo tempo limitati ad alcune zone della Lombardia che sono dichiarate zone rosse ed isolate dal resto del paese. Ma la diffusione del virus non si arresta ed intorno al 10 di marzo i contagi ammontano a circa 12000 ed i decessi a 1016 e non solo nelle zone rosse.

Il giorno 11 marzo il Presidente del Consiglio firma un decreto che mette in quarantena l’intero paese, l’Italia tutta è divenuta una enorme zona rossa. Gli italiani sono confinati in casa e possono uscire solo per giustificati motivi quali l’acquisto di generi alimentari di prima necessità e farmaci. La maggior parte degli esercizi commerciali è chiusa davanti a farmacie e supermercati si formano lunghe file in cui ciascuno cerca di rispettare la distanza dagli altri, come indicato nel decalogo fatto circolare dalle autorità. Le strade appaiono desolatamente deserte. Siamo piombati nel pieno di un incubo terribile. Qualcuno con tendenze autoritarie richiede l’intervento dell’esercito per controllare che le norme emanate siano rispettate.

Il Paese appare preda della paura, un cattivo sogno che non avremmo mai potuto immaginare che dalla lontana città cinese potesse arrivare ad interessare tutti noi.

Viviamo un’esperienza terribile come mai, negli ultimi settant’anni della nostra storia.  Ognuno si chiede se tale sciagura avrà mai fine e trema in cuor suo, sapendo che non vi sono armi per combattere il male. Eppure in questo tetro scenario, piano piano ognuno di noi va riscoprendo aspetti desueti eppure importanti. Lo stare in casa sembrava un’abitudine da vecchi. Si attribuiva una importanza suprema all’ uscire, al frequentar locali, ristoranti e negozi. L’effimero sembrava aver più importanza di ogni altro aspetto della vita,  tutta protesa all’esterno.

La famiglia sembrava  una entità superata buona solo per soddisfare le nostre necessità materiali. Valori antichi erano stati perduti. Ora invece che siamo costretti al chiuso delle nostre case ci accorgiamo che quei valori non sono morti, ma che ancora sopravvivevano tra quei muri da cui costantemente ognuno di noi desiderava evadere. Essi ci attendevano nel chiuso delle nostre stanze ed ora che non possiamo più allontanarcene sembra che abbiano ripreso a defluire dentro di noi. Abbiamo è riscoperto il piacere della lettura e di ascoltar musica. La comodità di quella poltrona accanto alla lampada, gli scaffali su cui si accumulavano libri acquistati e mai letti.

Ma,  soprattutto si riscopre il dialogo, lo scambiarsi i pensieri, i sogni, le aspirazioni e ci si motiva, con l’appoggio di chi, lo fa senza nessun secondo fine. Gli affetti sembrano aver acquistato l’importanza di un tempo. La famiglia è tornata al centro della nostra vita e ci accorgiamo tutti che essa è davvero il nucleo principale senza il quale non resta che soccombere al male di vivere.

Altra sorpresa ci ha colti impreparati, nelle nostre ormai rade uscite di casa, per procurarci quel che occorre a sopravvivere: gli italiani sembrano esser diventati disciplinati e rispettosi delle norme dettate dal governo. Nessuno che si azzardi a metterle in dubbio e abbiamo riscoperto la solidarietà e la cortesia. In quelle file, in cui occorre sovrumana  pazienza, nessuno si accapiglia e nessuno cerca di fare il furbo. Il concetto che l’unica arma a disposizione per vincere il male terribile, che si abbattuto su di noi, è la riduzione dei contatti ed il rispetto di poche , ma importanti norme igieniche, sembra essere entrato nella mente di ognuno.

In breve tempo e direi con nostra somma sorpresa. Gli italiani sono un popolo sorprendente le cui virtù sembrano affiorare solo di fronte a calamità epocali, ma occorre riconoscere che nel fondo siamo un popolo che messo alla prova riesce a superare ogni scoglio. E quello di oggi è davvero di dimensioni immani.

Tuttavia con la disciplina cui sembra cui tutti noi siamo in grado di adeguarci la speranza ha preso di nuovo ad albergare nei nostri animi. Un’ultima osservazione positiva e che ci riempie di orgoglio e di speranza è apparsa da qualche giorno sui giornali e sui social: a Napoli è stato messo a punto un protocollo per la cura di questa infezione ed a tale protocollo il paese tutto ed anche altri stati si adegueranno. All’apparire di questa biblica calamità qualcuno, nel Nord, osservava che era solo la buona gestione della sanità  delle regioni settentrionali aveva permesso di affrontare con qualche speranza di vincere questa evenienza. Se la cosa fosse nata al Sud allora non ci sarebbe stata alcuna possibilità di uscirne.

Ora i fatti smentiscono questi eterni denigratori del meridione d’Italia. Possiamo, pertanto concludere che se gli italiani, nel loro insieme, hanno dimostrato di essere un popolo sorprendente, i meridionali e, segnatamente i napoletano lo sono ancor più di tutti gli altri. Dal tanto bistrattato Sud giunge il rimedio che ci fa sperare davvero nella soluzione di questa terribile crisi.

È dal Sud, che dopo tanti giorni di vero terrore, arriva la possibilità di scorgere, come suol dirsi, la luce in fondo al tunnel, di immaginare che dopo questa lunga notte  sorgerà ancora il sole. Le parole di eduardo sembrano echeggiare nel deserto delle nostre strade: “Ha da passà ‘a nuttata”.

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