
L’irrilevanza-di Giuseppe Esposito-
Quella mattina, come accadeva da sempre, fin da quando era ragazzo, aprì gli occhi che era ancora buio. Il suo orologio biologico era da sempre puntato sulle cinque del mattino, anzi, negli ultimi tempi sembrava avere addirittura anticipato. A conferma di ciò, quando, allungando la mano pigiò il tasto della sveglia sul comodino alla sua sinistra, le cifre proiettate in caratteri rossi sul soffitto segnavano le 04:45. Non aveva mai avuto bisogno della sveglia, in vita sua ed immancabilmente, quelle rare volte che, per un eccesso di prudenza l’aveva puntata, aveva regolarmente aperto gli occhi prima che la suoneria si facesse sentire. In quel momento era sempre balzato fuori dalle coltri, non sopportando di restare con gli occhi sbarrati nel buio in attesa che il momento di levarsi fosse giunto.
Da un po’ di tempo però aveva cominciato ad avvertire una sorta di rifiuto, una tardiva ribellione a quella sua abitudine di aggirarsi per la casa, nel buio che ancora avvolgeva tutto. Aveva molto amato quell’intervallo di tempo solo suo, in cui i pensieri costituivano il proseguimento del sogno. Ora quella voglia di alzarsi lo stava abbandonando. Una domanda aveva cominciato a balenargli nella mente: Perché? Aveva, ma inconsciamente, non in maniera esplicita, cominciato a chiedersi perché.
Che senso aveva levarsi in ora antelucana e vagare per la casa, senza avere più nulla di urgente da fare. Quelle prime ore del mattino, le ultime di una notte non ancora finita le aveva sempre amate. Aveva amato il silenzio ed il profumo dell’aria. Quella sorta di limbo in cui più nulla esisteva se non lui, il suo tempo, i suoi pensieri e i sogni. Un tempo privo di affanni, un brano di vita rubata, in cui sfuggiva alle ansie ed alle paure del giorno. Uno spazio che cercava di riempire di pensieri diversi. La casa intorno era silente ma dalle stanze gli giungeva il respiro calmo dei figli e quello di sua moglie. Il silenzio gli era amico. Ora invece la casa si era svuotata. I figli lontani persi dietro la propria vita. Il mondo che aveva cercato di crearsi era crollato e lui non si sentiva più utile per nessuno. Anche il lavoro gli mancava. La fabbrica in cui si sentiva artefice del destino di molti. Quell’organismo che lui aveva contribuito a rendere vivo, in grado di progredire e di affrontare le sfide sempre più difficili che il mondo esterno gli proponeva, non esisteva più, travolto da quella terribile realtà che chiamavano crisi.
Quel fenomeno che tutti chiamavano globalizzazione aveva sconvolto le loro vite per ragioni che tutti stentavano a comprendere. Essa aveva partorito altri neologismi quali: Delocalizzazione. Ne avevano imparato il significato quando il loro lavoro era stato affidato ad altri uomini in paesi lontani. Ad uomini che accettavano di farlo in cambio di un salario che qui in questo paese non poteva garantire alcuna soglia, seppur minima, di sopravvivenza. Le sue certezze si erano sciolte come neve al sole. Altri, i veri padroni di quel suo mondo avevano deciso per lui. Un terribile giorno aveva appreso della fine già decretata della fabbrica. Si era ritrovato all’improvviso come un naufrago aggrappato ad un tronco galleggiante, sballottato dai marosi della realtà. Il vascello su cui la sua vita si era svolta era colato a picco. Da quel giorno per esorcizzare il vuoto che minacciava di risucchiarlo aveva cercato di seguire il ritmo consueto delle sue giornate. Quella mattina però decise di no levarsi . Non aveva più senso quel brano di vita sospeso tra la notte ed il giorno. Anzi era tutta la sua vita che non aveva più alcun senso. Si era trasformata nell’attesa del nulla ed i sogni lo avevano abbandonato.
Più tardi, quando sua moglie si svegliò si meravigliò di trovarlo ancora a letto. Non sentiva nell’aria il profumo del caffè che lui preparava in cucina tutte le mattine. Si meravigliò, lo scosse:
“Pino, che hai, come mai sei ancora a letto?”
Pino però non rispondeva. La donna insistette, poi cominciò ad avvertire il morso della paura. Cominciò a piangere, a disperarsi, senza sapere cosa fare. Poi la realtà si impose. Pino non avrebbe più risposto. Aveva cercato di resistere alla fine del suo mondo. Aveva cercato rifugio nei sogni che aveva sempre sognato ma si era reso conto che ormai era troppo tardi per sperare di riportarli in vita. Era inutile sperare ormai che si avverassero. Aveva cercato di cominciare a scrivere, ma non ne era stato più capace. Quel poco che trovarono dopo la sua morte era solo un grido per quel suo dolore di essere confinato inesorabilmente in quella condizione di irrilevanza cui non era ormai in grado di sottrarsi. Infine l’eco per quella morte si spense e la vita riprese a scorrere indifferente, come sempre, dopo ogni morte. I sopravvissuti se ne fecero una ragione.