Il Presepe napoletano: simbologia della monaca, in ricordo di Mafalda

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Il Presepe napoletano, e sia chiaro che ci riferiamo a quello popolare e non a quello colto e, nemmeno, al presepe tout court, cioè a quello che è possibile ammirare in una qualunque chiesa cattolica del mondo, nel periodo di Natale, è un unicum riscontrabile solo nella nostra città. Esso è la rappresentazione plastica, tangibile, di un coacervo di tradizioni, credenze, leggende, fede e superstizioni; universo a sé stante in cui compaiono figure e personaggi di quella cultura stratificatasi nel tempo con simboli del mondo onirico, quello fissato nei canoni della Smorfia, attraverso cui si compie un vero e proprio excursus nel modo dei sogni, precorrendo di diversi secoli l’analisi di Freud.

Napoli è del resto una delle città più antiche al mondo, ma è forse l’unica in cui le tracce del passato, anche quello più remoto, non sono mai scomparse del tutto. Ed il presepe è analogo ad una sezione fatta in laboratorio di un tessuto da analizzare al microscopio.

Per comprendere tale concetto basta fare una visita agli scavi archeologici, sotto la chiesa di San Lorenzo Maggiore, lì davvero vi troverete davanti ad una sezione della storia, della genesi della Napoli odierna. Davanti ai vostri occhi vi ritroverete nello strato più basso i resti della città greca, e subito sopra le vie e le botteghe della città romana. Risalendo troverete le tracce della città medievale e riuscirete infine in superficie, pensando di essere riapprodati nel vostro tempo, ma vi ingannate. Sarete riemersi in via San Gregorio Armeno che rappresenta una sorta di enclave senza tempo. Pensate che, già in tempi antichissimi, le botteghe di quella strada erano occupate dagli artigiani che creavano delle statuine di creta, usate come ex voto dai pellegrini che si recavano al vicino santuario di Cerere.

Oggi in quella via ancora si creano statuine di creta, stavolta per il presepe. Non vi sembra una storia quasi incredibile? E si ha l’impressione che il tempo si sia colà arrestato, cristallizzato. Nello stesso luogo sopravvivono le più diverse culture in una miscela affascinante.

L’altro elemento che salta gli occhi dello spettatore che si fermi ad osservare il presepe napoletano è l’abbondanza dei richiami al mondo dei morti. Ma a Napoli la morte è sempre stata presente ed il culto dei morti è sempre appartenuto al popolo napoletano. Per rendersi conto di questa presenza costante, basta che facciate una passeggiate per le vie del centro storico. In via dei Tribunali vi imbatterete ad un certo punto nella chiesa di Santa Maria del Purgatorio ad Arco.

Ai lati della doppia rampa di scale che menano all’ingresso osserverete due colonnine di granito, su cui poggiano due teschi di bronzo, resi lucidi dallo strofinio di migliaia di mani che li hanno sfiorati nei secoli compresi tra il XVII e oggi, in un gesto apotropaico e, contemporaneamente, di fede.

Se poi vi affacciate alla grata che nella parete compresa tra le due scalinate si apre per dar luce all’ipogeo, osserverete lì sotto la terrasanta che ospita centinaia di teschi, testimonianza del culto delle capuzzelle da sempre presente nella cultura popolare dei napoletani.

Per quanto detto sarebbe stato impossibile non ritrovare, anche sul presepe, i segni di tali devozioni ed abitudini popolari, rese evidenti da figure che richiamano il regno dell’oltretomba. Anzi, qualcuno si è spinto ad affermare che il presepe napoletano è una porta rituale tra i due regni, quello dei vivi e quello di morti.

Di alcune di queste figure abbiamo già detto, ma una ve n’è che, oggi, è un po’ desueta ed è quella della monaca. Fino a non molto tempo fa la si trovava su tutti i presepi ed essa era raffigurata con un pugnale infisso tra le costole ed in grembo una sacca in cui si intravedeva una testa maschile, quella di un giovane.

La figura della monaca si ricollega ad una leggenda popolare, che ha un sapore manzoniano, quello della storia di Gertrude, la monaca di Monza. Anche se c’è chi afferma che sia una vicenda realmente accaduta. Protagonista della storia è una giovane fanciulla napoletana, Mafalda, appartenente ad una delle famiglie più aristocratiche della città, i principi Ciciniello e vissuta ai primi del Seicento. In quel tempo, presso le famiglie nobile era in uso il maggiorasco, per cui, l’intero patrimonio familiare spettava al primogenito e per gli altri figli non rimaneva che la carriera militare o quella ecclesiastica. Per le donne, sovente, l’unica via era quelle del monastero cui erano indotte volenti o nolenti.

Tale sorte era stata destinata anche a Mafalda. Essa però era innamorata di un giovane paggio al servizio del padre. Gli incontri tra di loro avvenivano solo di notte per evitare di essere scoperti. Avvenne ora che un anno, in occasione del Natale essi si fossero dati convegno su di un ponte. Ma qualcuno si premurò di avvertire il principe padre che si recò sul luogo dell’incontro dove soprese il giovane amante da solo, lo uccise e gli fece spiccare il capo dal tronco. Quando Mafalda giunse sul ponte non poté fare altro che raccogliere la testa dell’amato. Poi, preso un pugnale, si trafisse il petto. Così era rappresentata sul presepe.

Ma una storia simile la ritroviamo anche nel Decamerone, narrata dal Boccaccio. Lì la protagonista è una certa Elisabetta da Messina, la cui famiglia dopo l’omicidio del giovane amante si rifugiò a Napoli.

Una così toccante vicenda non poteva non ricomparire sul presepe popolare napoletano per la sua capacità di toccare le corde del sentimento. Ed ovviamente, la figura della protagonista di quel dramma amoroso non può che alludere al regno dei morti. Ma vi è di più, la tradizione popolare afferma infatti che, la notte di Natale, il fantasma di Mafalda si aggiri sul ponte della Maddalena. Certe storie colpiscono particolarmente il cuore dei più semplici ed entrano a far parte del corpus delle leggende e delle tradizioni del popolo.

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