
-di Giuseppe Esposito-
Le migrazioni sono oggi un argomento drammaticamente all’ordine del giorno, sebbene nessuno sembra aver voglia di affrontarle con la dovuta attenzione. In Italia lo scontro è di natura puramente ideologica, mentre gli altri paesi europei fanno finta di niente e si voltano dall’altra parte, lasciando al nostro paese l’onere di affrontare l’urto delle spinte migratorie che ci arrivano sia dal Mediterraneo che attraverso quella che è stata definita la rotta balcanica.
Vi è poi un’ala della sinistra che predica la teoria di una accoglienza indiscriminata senza neppure chiedersi se questa massa di migranti può davvero essere accolta ed integrata, tenendo anche presente che molti di quelli che arrivano, per religione, costumi ed abitudini non sembra neanche animata dal desiderio di questa fantomatica integrazione. A conforto delle loro tesi questi cosiddetti buonisti paragonano i migranti che sbarcano disordinatamente nel nostro paese ai nostri emigranti di un tempo. Errore che nasce o da malafede o da ignoranza del contesto in cui i nostri compatrioti partivano.
Tralasciamo per un attimo le migrazioni verso le Americhe che hanno caratterizzato i primi trent’anni del XX secolo e puntiamo, per un attimo, lo sguardo sulle migrazioni dei nostri connazionali verso i paesi del nostro continente. Uno in particolare merita attenzione: il Belgio. Verso di esso furono indirizzati migliaia di nostri emigranti grazie ad un trattato del 1946, stipulato tra i due governi italiano a belga. In quel trattato i nostri emigranti, soprattutto meridionali, erano trattati come merce di scambio per ottenere il carbone necessario alla ripartenza della industrie, soprattutto settentrionali. Un trattato eticamente dubbio in cui si parlava esplicitamente di una quantità di carbone per ogni emigrato messo a disposizione.
Questo aspetto dello scambio è richiamato esplicitamente: “accordo minatori – carbone” ed è molto controverso poiché i nostri lavoratori erano ufficialmente assimilati ad una merce da scambiare con altra merce. Per questo motivo molti dei nostri compatrioti costretti ad espatriare si sentivano dei deportati economici, scambiati per un sacco di carbone. In quell’accordo ci si occupava dettagliatamente di ogni aspetto del reclutamento e delle procedure di immigrazione. Quello che si trascurava del tutto era l’aspetto legato alle condizioni di vita dei nostri operai, destinati a svolgere la loro attività nell’industria estrattiva belga, le cui strutture erano irrimediabilmente obsolete ed insicure.
I nostri operai inesperti in quella particolare attività e privi anche di un periodo di formazione erano destinati ai lavori di fondo, spesso oltre i mille metri di profondità. Il salario era spesso inferiore a quello promesso ed in gran parte legato al cottimo. Cosa questa che costringeva gli operai a risparmiare tempo e, talvolta a tralasciare le procedure di sicurezza, esponendoli al rischio di incidenti. Chi osava protestare era esposto al rimpatrio forzato. Fuori dalla miniera i lavoratori erano ospitati nelle vecchie baracche di un ex campo di concentramento privi di elettricità e servizi igienici.
Gli incidenti erano dunque, per forza di cose, frequenti e quella che avvenne nella miniera del Bois de Cazier, nel distretto carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina di Marcinelle fu, dunque, una tragedia annunciata. Era quella una miniera le cui strutture erano così vetuste che si parlava, già dagli anni Venti, della sua chiusura. L’aumento della domanda di carbone avevano però fatto desistere gli industriali dalla chiusura o dall’ammodernamento degli impianti, decisi a sfruttarli fino in fondo, senza preoccuparsi della loro sicurezza.
Nella giornata dell’8 agosto del 1956 una scintilla nell’impianto elettrico innescò l’incendio dell’olio ad alta pressione. Esso si sviluppò inizialmente nel condotto principale di immissione dell’aria e riempì di fumo ogni angolo della miniera, causando la morte di 262 delle 275 persone presenti. Di questi 137 erano immigrati italiani. Quella fu la terza più grave tragedia al mondo, dopo quella di Manongah e di Dawson. Oggi la miniera di Marcinelle dismessa è patrimonio dell’UNESCO, monumento alla cecità degli imprenditori ed allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.